martedì 20 gennaio 2009

Non è un paese per orfani


Il foglio che state leggendo è frutto di un lavoro collettivo che tiene assieme gruppi e singoli, attivisti ed editori, giornalisti e scrittori, lavoratori della cultura in genere. È un esperimento che tenta di pensare in comune la fine della rappresentanza politica e le mutazioni del presente. Parla di Roma, e dentro Roma vuole costruire la sua continuità. Un progetto che rivendica per sé parzialità e spregiudicatezza: nulla può essere pensato senza uno spirito di parte; nulla può essere scritto senza tentare di mettere in crisi il senso comune.
Un foglio che si rivolge a chi dentro Roma non si sente sconfitto e guarda con voglia di sperimentare la scena emersa dopo lo sconquasso elettorale. Un luogo di incontro, attraverso la scrittura, di pensieri e di pratiche di discorso che provano a capire cosa è davvero cambiato, cosa funziona malamente nell’esperienza politica e dei movimenti, cosa gira a vuoto, ma anche l’estensione e l’intensificazione di nuovi campi di conflitto.

Che è stato?
Come è potuto accadere che il laboratorio Roma, quel modello di governo della città messo in piedi da Veltroni, che nei sondaggi riceveva percentuali bulgare di sostegno e approvazione tanto da rendere ritrosi i possibili candidati del centro-destra a presentarsi, sicuri di una sonora sconfitta, come è potuto accadere che quel modello sia crollato nel breve volgere di una tornata elettorale?
Ammettiamo pure che quanto accaduto sia il risultato di un complesso di cause: l’avanzata baldanzosa del centro-destra in tutt’Italia con un effetto di trascinamento, il pedaggio pagato alle intenzioni e ai risultati disastrosi del governo Prodi, il «sacrificio» di Veltroni al compito di segretario del Pd e l’inadeguatezza di quel riverente baciapile di Rutelli – percepito come una automobile logora, buona per la rottamazione – a suscitare un supplemento di simpatia e passione, l’esplodere di eventi drammatici legati alla questione sicurezza, cavalcati dal centro-destra contro l’eccesso di «tolleranza e buonismo» precedenti e rispetto ai quali si presentava invece come fautore di «ordine e legalità» da instaurare muscolarmente, la disaffezione di un’area non minuscola di opinione radicale che ha insistito nell’astensionismo, e persino un possibile “suicidio” interno al centro-sinistra, tra le sue correnti, che ha premiato il candidato alla provincia e penalizzato il candidato a sindaco. Ammettiamo pure tutto questo, e forse altro ancora: resta tuttavia l’incontrovertibile dato che l’unicità di Roma – addirittura sbandierata come possibile trincea a fronte della marcia inarrestabile della destra, la leva di un rilancio – si è rovesciata nel suo opposto: avere conquistato Roma è stato, per la destra, un passaggio storico simbolico, lo sdoganamento definitivo. È da Roma, peraltro, che iniziò la discesa in campo di Berlusconi, quando dichiarò, nella corsa a sindaco di allora, la sua preferenza per Fini. Un suggello, quindi: di più, molto di più, della precedente conquista di Bologna la rossa per mano di Guazzaloca, che tanta curiosità e meraviglia suscitò nella stampa internazionale. Bologna era ed è impiantata in una dimensione “emiliana”, così come Milano è, ormai da anni, tutta radicata in una dimensione “lombarda”; e Venezia sta a specchio e contrasto del Nord-est e Napoli e Palermo sono «così meridionali». Solo Roma non è regionalizzata, semmai spadroneggia sulla sua area regionale. Solo Roma, per estensione e numeri, problemi, ruolo, storia e attualità, racchiude una dimensione “italiana”. È l’unica metropoli di questo paese, magari controvoglia i suoi stessi abitanti e la sua forma urbis. Vivere qui è un privilegio e una fatica, una gioia quotidiana e una litania senza pausa di bestemmie: si paga già ogni giorno il ticket, solo per starci.

Il veltronismo: ciao core
Dove, in cosa non ha retto il veltronismo? È proprio vero che il suo punto di crisi e rottura risieda nella spettacolarizzazione delle iniziative e degli eventi a scapito della concreta materialità dei servizi alle periferie, delle buche mai colmate, dei trasporti incasinati, insomma della normale amministrazione di una città? Una città che si sarebbe sentita abbandonata, che avrebbe vissuto il progressivo degrado dei luoghi come deliberata trascuratezza di un’amministrazione colpevole d’essere tutta concentrata su lustrini e paillettes. Eppure, quel modello di città-spettacolo sembrava funzionare: le notti bianche sono state attraversate da milioni di persone e riprodotte dappertutto in Italia, da Ragusa a Salerno a Pordenone – forse davvero l’unico modello esportato; la Festa del cinema, tappeti rossi per le star, una competition con Venezia, flash a go-go, conferenze-stampa e tanti autografi, era un visibilio; Paul McCartney, Elton John e Simon & Garfunkel avevano adunato oceaniche folle con fiammelle di accendini e cuoricini luminosi intorno al Colosseo e giù per i Fori; i Capodanni a piazza del Popolo coi zumpappà della Mannoia e De Gregori erano un tripudio di fischietti e cotillons. E il Pil che correva come nessun altro, e il gettito fiscale che aumentava, e il boom dei turisti, e la dinamicità di nuove imprese, e l’occupazione che cresceva e i progetti di mobilità urbana? Tutto dimenticato? Si può essere così ingrati? È questo il punto?
Magari il punto è che il lato oscuro della brillantezza performativa di Roma poggiava sulla privatizzazione d’ogni servizio, su una precarizzazione spaventosa del lavoro, dei redditi, della qualità della vita e che qualsiasi spettacolo – ancorché agratisse – dura quel che dura ma poi si torna alla quotidianità e ci fai poco coi zumpappà e le immagini della tua star sul cellulare. Magari il costo della vita sta diventando insopportabile, le rate falcidiano i redditi, le cambiali non bastano a comprare schermi al plasma pure che te li tirano dietro senza interessi ai centri commerciali o li cominci a pagare nel 2012, ma neppure le mozzarelle e gli affettati. Magari non basta più farsi ancora il culo sul lavoro o depennare qualche spesuccia o arrangiarsi, fare qualche traffico o mettere in piedi qualche business piccolo piccolo, vivere ai limiti dell’illegalità. Magari l’impoverimento collettivo non è solo di cose, ma è di relazioni, di rapporti, di sicurezze, di speranze, di identità.
Magari il punto è che questa messa in scena di città è piccina e provinciale, che chi gira un po’ per l’Europa si accorge di quanto avanti siano Berlino, Parigi, Barcellona, i cui musei rimangono aperti giorno e notte, le cui biblioteche sono sempre frequentabili, i cui teatri allestiscono spettacoli importanti, in cui le facilitazioni per i turisti e i giovani e i cittadini sono sostanziose e significative, in cui la mobilità è un sollievo e non una iattura, la cui vita culturale, sociale, relazionale è ricca, aperta al confronto internazionale, cosmopolita, metropolitana. Magari altrove le università sono preziose eccellenze, di formazione e di cultura, di ricerca e di innovazione, di attrazione e di espansività, a cui si appartiene con orgoglio e non con senso di vergogna per l’abbandono e il degrado in cui tutto versa, luoghi e saperi, routine burocratiche e consuetudini docenti, tutto un «sapienziame» elaborato nei giochini di potere, di baronie, di sperperi e arraffamenti di denari pubblici e privati. Roma è rimasta «all’amatriciana», città di memorie antiche e di recenti rimpianti, metropoli mancata a dismisura d’uomo, lontana dai circuiti finanziari importanti, dai circuiti politici importanti, dai circuiti culturali importanti. Il modello veltroniano non ha fatto troppa “cultura”, ma, al contrario, troppo poca e un po’ melensa. È la rappresentazione politica di quel pastiche televisivo de «I Cesaroni», la messa in scena del “popolare” e del “democratico”: i menu etnici invece dei diritti agli immigrati. Veltroni è stato al di sotto delle necessità di questa città, di questa Roma, di questa metropoli, sia pure una metropoli impossibile e tutta da venire, da immaginare. Era troppo preso dalla collezione di figurine (rockstar, attori e attrici, presidenti dismessi: ce l’ho, ce l’ho, mi manca) e non dai processi di innovazione e sperimentazione. Gli unici luoghi di questa città dove si sono innescate dinamiche di apertura, contaminazione e respiro internazionali, sono stati luoghi ai margini, che hanno dovuto strappare sempre con le unghie e con i denti la propria legittimità e autorevolezza.
Né è bastata l’alleanza di potere con gli immobiliaristi e la rendita bancaria, il Piano Regolatore con la sistematizzazione dello spazio urbano – vecchio e nuovo, di una città che continua ad allargarsi – come unico «valore aggiunto», in una curiosa forma di neodemocrazia: una testa, un mutuo. Con il suo supplemento di cubature di cemento e l’incremento della speculazione finanziaria: al dunque, fiutata l’aria, quei signori hanno cambiato casacca, puntato su un altro cavallo. Il veltronismo non prevedeva la costruzione di una alleanza fra ceti sociali, classi, territori; piuttosto, la contrattazione fra poteri, la mediazione fra emergenze, il coinvolgimento delle rappresentanze politiche – la Sinistra democratica, Rifondazione, i Verdi, questo hanno fatto: qualche calcio negli stinchi –, una città spenta e paciosa, caciarona e un po’ volgare, romanesca e coatta, dove le contraddizioni, i conflitti venivano messi ai margini, fuori scena. La classe che di questa sceneggiatura economica era ed è vero motore produttivo – il precariato del lavoro materiale e immateriale – non è mai stato il soggetto sociale del veltronismo. Qualche mancia, ogni tanto: una scodella di grano può fare miracoli e tenere buona la plebe. Però, poi, le palle girano a mille, si diventa astiosi, alla prima occasione ci si vendica: pollice verso.

Mutande e pennacchi
Anche la stampella «caritatevole» di questa macchina amministrativa, il cattolicesimo solidarista, ne esce in crisi. Non si può contemperare offensiva ideologica reazionaria, dura, insistente, programmatica, autistica, lontana dalla mondanità, dalle modificazioni della vita, della scienza, delle tecnologie, della biologia, del genere, con un ruolo di riferimento sociale; non si può avere ruolo di riferimento sociale, attenzione ai deboli, alle nuove povertà e poi mostrarsi remissivi e complici coi poteri. Quanto siamo lontani, davvero, dalla condanna dei «mali di Roma» degli anni Settanta. È cambiato il potere temporale? O, piuttosto, è cambiato l’atteggiamento del potere “spirituale”? Bastano le piazze piene e le prediche urbe et orbi quando si hanno le parrocchie vuote? A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio: ovvero, lo stato fruga nelle mie tasche, la chiesa fruga nelle mie mutande. L’uno e l’altra mi spogliano: è questa la «nuda vita»?
Il sicuritarismo è una bufala. Tutto chiacchiere e distintivo. Il sicuritarismo, con la sua semplificazione delle cose, la sua riduzione a pochi, quando non a uno, dei problemi, provoca il caos dell’ingovernabilità. Una città complessa, una metropoli ha bisogno di risposte complesse, di una crescita complessa, di una moltiplicazione delle risposte di fronte alla moltiplicazione delle questioni. Basteranno quattro proclami e tre sceneggiate d’ordine di Alemanno a sistemare le cose? Basterà il rastrellamento dei rom, la trasformazione dei Cpt in galere per il solo reato di essere clandestino – qualcuno che andrebbe cioè protetto e aiutato da ciò da cui fugge –, il linciaggio mediatico di qualche trans, lo scatenamento di qualche testa rasata, la pistola alle guardie per strada, l’esercito a pattugliare consolari e circonvallazioni, per aumentare i nostri salari, i nostri redditi, per farci pagare le rate, per farci comprare più cose necessarie e no, per assicurarci casa e lavoro, per dare certezze ai figli, per pagare meno tasse, per avere più ricchezza, più abbondanza, più serenità? Ma che, davero davero? O piuttosto, aumentando e sovrapponendo le truppe, i poteri di polizia, locale e nazionale, non aumenteranno pure le discrezionalità al riparo dagli sguardi, le corruzioni piccole e grandi, le trattative coi poteri criminali forti – ma quelli “forti” davvero, le mafie nazionali e no, e non muschilli e cavalli di quart’ordine, nazionali e no – che stanno già qui e si spartiscono e controllano il territorio, e ne gestiscono, spesso, umori e tendenze? Intanto, gongolano gli stessi “imperatori” di prima, costruttori, immobiliaristi e banche, pronti al nuovo patto e ai nuovi affari: a loro, dei Rom, gliene po’ fregà de meno: mica sottoscrivono mutui per le case, i Rom.

La sòla dell’avvenire
La forma di economia che ha governato il mondo è andata in crisi. Il liberismo è in crisi, ovunque. È in questo passaggio che le contraddizioni sociali ed economiche accumulate esplodono, che i processi di fascistizzazione sociale emergono, che ritornano ammodernati egoismi sociali, razzismi etnici, disgregazione e aggressività, coatterie globali e periferiche. Tutto ciò ha poco di “ideologico” e non bastano le buone pedagogie. Tutto ciò è legato a processi di vita materiale. I neo-nazionalismi, le piccole, medie e grandi patrie (in Europa, ovunque, dalla Francia al Belgio, dalla Germania all’Albania) accompagnano le proposte di protezionismo economico, di nuovi dazi, di nuove dogane, di nuove autarchie, di nuovi federalismi regionali. La società, quanto aveva trovato forma economica e non solo nel welfare, è stata sfracellata dall’ondata del liberismo, la mano santa della privatizzazione d’ogni cosa – persino della guerra – e del mercato come panacea. Di quanto veniva curato, assistito e controllato nello scambio politica/lotta, la lealtà alla democrazia in cambio di un reddito sociale, di servizi e un pasto a gratis, nel «matrimonio combinato» tra lavoro e capitale dal battesimo al funerale passando per la scuola, la salute, la pensione, ne hanno fatto frattaglie e spezzatino. Ora è il liberismo a mostrare il fiato corto, a non essere in grado di governare più. E insieme, ora è il riformismo – sta forma di veltronismo senile – a stare alla canna del gas, vagheggiando progetti retro e melo – ah, i meravigliosi anni Sessanta –, a essere irrealistico, poco concreto, una cosa forse buona fra trent’anni quando saremo tutti morti. A seguire, come le vettovaglie, tutto quell’ambaradam di ong e terzo settore delegati a curare le differenze e le marginalità, e a mantenerle tali, relativismi culturali, che non possono somministrarci la loro minestra riscaldata come un «fare società». Ora, vengono avanti vessilli e teorie che si condensano intorno a un’idea “nazionale”, un’idea di sangue e di suolo, di «salute pubblica». Che sia quartiere, regione, impresa, macro-area territoriale, staterello. Destra e sinistra si appattano su questo, difendano i residenti, i nativi, i produttori, i consumatori, i lavoratori, i proletari, i cittadini. La difesa della razza e del territorio fa leva sulla paura, fa leva sull’aggressività, fa leva sulle questioni materiali. Quanto è «pubblico» oggi, istituzione pubblica, lavoro pubblico, servizio pubblico, «nazione proletaria», ha solo il carattere del ciarpame, del parassitismo. Dell’orrore. È il rovescio orribile di ciò che è «comune», la faccia rivoltata e rivoltante della cooperazione sociale, dell’autonomia degli individui, della ricchezza sociale, del livello alto e possibile e diffuso di capacità di produzione. Di vivere una buona vita.

Che sarà
Questo foglio intende contribuire e partecipare alla riflessione e al dibattito post-elettorale a Roma e alla continuità e ripresa delle battaglie e delle lotte politiche. Ci sembra che le più recenti iniziative, una maggiore disponibilità a rimettersi in gioco, a fare rete e ricchezza anche delle proprie specificità, dei propri territori, vadano in questo senso. Proveremo pure a darci continuità, a stampare altri fogli, ad allargare e infittire questioni, cose e persone. La destra al potere è una faccia della barbarie già in atto, l’altra, quella forse più feroce, sta in certi comportamenti sociali. Ci sembra pure non ci siano spazi per ammoine: la crisi della politica, che è sostanzialmente la crisi del riformismo del Novecento, si è consumata tutta. Ci restano, ed è tutto, processi di indipendenza economica, materiale, politica, culturale dentro la società, contro questa società. Ci resta un sapere generale e una capacità di autogoverno e produzione che sono mortificati e marginalizzati dai processi economici e democratici. È quello che oggi definiamo «comune», che già presiede le nostre singole vite, le nostre singolari identità e a cui quotidianamente attingiamo. È una tensione, un processo ma anche già vita materiale, comportamenti, attitudini, modi, stili, forme di vita. Qui e ora. Tra l’uno e l’altro, tra il comune e il pubblico, non c’è linea di mediazione possibile: o la potenza e la costituzione di un nuovo vivere sociale o la barbarie. O nuove istituzioni e nuove regole di convivenza e decisione o il regime d’ordine col consenso di maggioranza. O la potenza del «comune» diventa potere, capacità di dare forma ai pensieri e ai gesti del vivere sociale, o prevarrà l’accaparramento di ciascuno a scapito di qualcun altro. Roma, per la sua complessità, sarà emblematica. Noi qui stiamo. Nella «nostra» Repubblica.
Accorrete! Accorrete!

Scrivete a: repubblicaromana@gmail.com
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