domenica 29 marzo 2009

Invito - presentazione del quarto numero

Il quarto numero de «la Repubblica romana» appena uscito prova a spiegare con più ampiezza di argomentazioni – ha adesso quattro pagine – il senso di un nuovo repubblicanesimo, dell’opposizione alla politica nazionale, di un percorso di indipendenza. Con Roma, la sua storia e la sua attualità, al cuore delle cose. Una nuova «questione romana».
Ti invitiamo alla presentazione di questo nuovo numero, venerdi’ 3 aprile alle ore 18, presso la libreria Flexi in via Clementina, 9 – a Monti. È un’occasione per conoscersi, per ragionare insieme del «che fare». Mettila in agenda.
Ti aspettiamo, a venerdì

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giovedì 26 marzo 2009

Tacete, politici!

Lacrime, sudore e sangue
Lacrime, sudore e sangue. Così i politici ci raccontano la crisi economica. Ma nostre saranno le lacrime, non le loro. Nostro il sudore e il sangue, non il loro. I politici ci chiamano alla mobilitazione, come in guerra, contro nemici invisibili e lontani: la finanza malvagia, la globalizzazione perversa. Ma nella terra di trincea stiamo noi. A noi chiedono di tenere duro, di tirare la cinghia: coraggio e sacrifici non sono il loro pane e companatico, ma il nostro.



Lacrime, sudore e sangue. La crisi è la nuova religione, il nuovo monoteismo, il nuovo dio dalla faccia ora terribile e ora caritatevole a cui rivolgere le nostre preghiere. Esibita o malcelata, intonata a coro o sussurrata, come ogni religione serve a intimidirci e a cercare conforto. La crisi è sovrannaturale, non è umana, non ha nomi, cognomi, indirizzi, responsabili: e la nostra salvezza starebbe tutta nel credere con fede cieca nelle loro formule, nei loro riti, nei loro incensi.
Lacrime, sudore e sangue. Chi racconta come vanno le cose del mondo, possiede il mondo. Ora c’è un solo libro del mondo: la crisi. Le storie si sono impoverite, le parole si sono impoverite. La crisi è la nuova liturgia, la nuova narrazione del potere.
Ma qui vogliamo raccontare un’altra storia: una storia fatta di produzione e scienza, di tecnica e prosperità, di ricchezza e distribuzione, di autonomie e indipendenza, di intelligenze e saperi, di autogoverno e libertà, di sentimenti e diritti, di territori e comunità, di presente e di futuro. Qui si racconta un’altra storia. Chi racconta come vanno le cose del mondo, possiede il mondo.
Sarà pure vero – come dicono a Palazzo – che «prima o poi le crisi passano, che le crisi sono cicliche, che tutto sommato ce la facciamo», però noi non vediamo cieli azzurri sopra le nostre teste, ma una tempesta. Questa che è esplosa non è solo «economia», è la crisi del loro mondo, dei loro princìpi, delle loro regole, delle loro istituzioni. Il mondo è andato a pezzi perché non funzionano più quei princìpi, quelle regole, quelle istituzioni. E non funzionano più perché non riescono a comprendere e rappresentare i nostri comportamenti, i nostri bisogni e i nostri desideri. Noi non siamo catastrofisti, ma è di tutta evidenza che nessuno di loro ha capito la crisi che arrivava: davvero qualcuno crede ancora alla favoletta che cinquantamila miliardi di dollari – il «prezzo» del prodotto globale di un anno – siano andati in fumo per quattro mutui subprime americani sulla casa e quaranta ladroni? Cos’è, una sorta di Tangentomondo di mariuoli globali? E nessuno di loro ha la più pallida idea di come tirarsene fuori. Alambiccano idee, progettano ora questo ora quello, tirano alla giornata. L’unica cosa che regge un po’, come sacchetti di sabbia mentre tutto esonda, sono le vestigia di quello Stato sociale che destra e sinistra da anni hanno ridotto o smantellato. Caduti in uno sprofondo, fuori di senno, provano a uscirne sollevandosi per i capelli.
Ma è la potenza della tecnica che ha sovvertito le regole, non la crisi: non siamo solo enormemente più produttivi dei nostri padri, ma possiamo esserlo condannandoci di meno al lavoro. Non siamo solo enormemente più produttivi dei nostri padri, ma possiamo esserlo di meno. Possiamo vivere senza condannarci al lavoro. Possiamo vivere una vita ricca e non misera, sociale e non marginale, ambiziosa e non squallida senza condannarci al lavoro. Questa è la consapevolezza che ci ha dato la tecnica, che ci ha dato lo sviluppo delle nostre facoltà produttive: che possiamo fare a meno del lavoro. Che non dobbiamo essere morti per fare a meno del lavoro. Possiamo interessarci del mondo, curare il mondo e noi stessi, senza essere schiavi del lavoro. Da sempre ci siamo chiesti: Come posso fare di questa cosa un’altra?, ora possiamo chiederci: Come dare valore alla nostra vita? A Palazzo, questo non va giù. Il risparmio di lavoro si rovescia in disoccupazione. Schiavi del lavoro, morti di lavoro dobbiamo restare. Con la deregulation, eravamo elemosinanti di lavoro, con la new regulation saremo elemosinanti di lavoro.
Ma è la prossimità del mondo che ha sovvertito le regole, non la crisi: mangiamo, vestiamo, usiamo, guardiamo cose inimmaginabili per i nostri padri, possiamo andare ovunque e da ovunque possono venire da noi. Vediamo cose che per i nostri padri appartenevano a un altro mondo. Ora sono a portata di mano. Adesso sappiamo suoni e colori e odori che nemmeno conoscevamo. Tutto questo ci incute timore – noi stessi ne siamo spaventati, avendo perso identità e sicurezze, quelle che avevano i nostri padri – ma ci affascina. Mai l’uomo ha potuto avere una simile sensazione di appartenere all’umanità tutta intera e che l’umanità tutta intera gli appartiene: sentiamo che qui sta una ragione del nostro stare al mondo. Da sempre ci siamo chiesti: Chi siamo?, ora ci chiediamo: Cosa possiamo? A Palazzo, questo non va giù. Nemici l’uno dell’altro, ostili delle nostre solitudini, avidi difensori delle cose possedute, dei nostri limiti dobbiamo restare.
Ma sono le scoperte della scienza che hanno sovvertito le regole, non la crisi: scopriamo di avere molto più tempo di quello che hanno avuto i nostri padri per le loro vite, che i nostri corpi possono essere meglio medicati e sanati, che possono restare vitali a lungo, che i nostri sentimenti di affetto e di amicizia possono perdurare. I limiti della vita e della morte si spostano, le forme della riproduzione si modificano, i nuclei di relazione della nostra intimità oltrepassano la famiglia tradizionale legata al sangue. Siamo stupefatti e turbati di queste possibilità, come se la scienza ci donasse tante altre vite, invece di quella sola che ci dà la natura, con una sola storia. Siamo cauti, ma procediamo per sperimentare, perché chi venga dopo trovi ancora più possibilità, più opportunità, più speranze. Trovi meno dolore, più saggezza e felicità. A Palazzo, questo non va giù. Dannatamente oscurantisti, per loro il sole gira sempre intorno a una terra piatta, perché è nel buio che possono comandare la nostra paura.
È la potenza della tecnica, è la prossimità del mondo, sono le scoperte della scienza – i processi che mettono l’uomo «in comune» con se stesso e con gli altri – che hanno sovvertito le regole, non la crisi. La crisi viene dopo, la crisi viene adesso per fermare tutto. Meglio distruggerla, la ricchezza, che permettere che essa si distribuisca e si riproduca senza controllo. Così congiurano a Palazzo. È il Palazzo che diventa insolvente, non questa o quella banca. Quell’enorme accumulazione di capitale – cinquantamila miliardi di dollari – invece di essere investita nella tecnica, per avere più prosperità e meno lavoro, nella scienza, per avere più salute e meno dolore, nella prossimità del mondo, per avere più libertà di movimento e meno confini, è rimasta «segno», moneta virtuale di conto, come averla messa sotto i materassi, andata in fumo. È morta. Sono stupidi o sono malvagi? Sono stupidi e malvagi. Distruggendola, si rifonderanno gerarchie e autorità, centralità degli stati e delle nazioni, bisognerà ricostruire e ricondannarci alle regole del bisogno, del dovere, della necessità e del lavoro, bisognerà restringere i confini e farci difendere le nostre patrie, bisognerà lasciare che la provvidenza faccia il suo corso.
Così vanno le cose del mondo. Questa è la storia che noi raccontiamo: oltre la crisi, per il Palazzo c’è più Stato e più fatica, per noi più libertà e più felicità.
Questa storia la raccontiamo nei territori dove stiamo di casa, nelle città che abitiamo, nei luoghi che amiamo e a cui prestiamo attenzione, per i quali ci battiamo, perché è qui che si svolgono le nostre vite, è qui che si costruiscono le nostre relazioni, è qui che il nostro «amor proprio» – il sentimento di cura delle nostre singolarità – diventa «luogo comune» con gli altri. La raccontiamo a Roma perché è qui che abbiamo il caso e il privilegio di vivere.
Un privilegio, perché vivere a Roma è anche essere narrati dalla storia, misurarsi a ogni passo con un «laboratorio» di secoli, non dell’altro ieri, dove la potenza, la tecnica, la prossimità del mondo, la scienza – di volta in volta, nel tempo – hanno costruito un’idea di libertà, di diritti, di felicità, di cittadinanza, di universalità.
Se c’è un luogo al mondo dove più dolorosa e stridente è la sciatteria del potere, l’incuria del dominio, la mediocrità del comando – la sciatteria, l’incuria, la mediocrità del Palazzo –, questo è Roma: perché qui, e per questo appartiene al mondo, sono ancora visibili e perenni i segni di un tentativo grandioso e terribile di trovare una misura tra la propria finitezza e l’eternità, tra la propria singolarità e l’universalità, tra l’utilità e la bellezza, tra i diritti e le libertà, tra le proprie mura domestiche e lo spazio pubblico.
Liberare Roma, battersi per l’indipendenza di Roma significa allora restituire a noi stessi e al mondo quelle domande, cercando le risposte nel presente, nell’adesso, nell’ora e nel qui.
È di Roma che vogliamo parlare. Della sua indipendenza politica, della sua indipendenza produttiva.

Produttori di indipendenza
Il processo dell’indipendenza politica si intreccia e poggia sui processi di indipendenza del lavoro.
Questa indipendenza del lavoro è bastarda, e non si dà «pura» in natura. Non la si rintraccia a mezzo degli indicatori economici: numero di addetti, capitale sociale, volume di transazioni, o per le dimensioni ridotte o di scala. Né per le forme contrattuali entro le quali si configura: tempo indeterminato, a termine, a progetto, part-time. Non è il lavoro autonomo né il lavoro subordinato. Essa non è riconoscibile per i modi della sua esecuzione, se a esempio si svolge trattando linguaggi, segni, comunicazione, forme, visioni, o se piuttosto è manualmente avvezza alla durezza del ferro e del cemento: ci sono cani che ringhiano rabbiosi dietro l’apparente inconsistenza delle cose, e viceversa cuori disponibili e menti aperte che nessuna ruvidezza quotidiana riesce a scalfire. Né la si individua attraverso l’immaterialità o materialità dei prodotti: ci sono prodotti immateriali altamente tossici per la socialità, e viceversa prodotti materiali assolutamente benefici. Non si evidenzia per la «qualità», la bellezza e il valore culturale del prodotto: ci sono prodotti di fattura straordinaria che sono assolutamente inutili o destinati a minime nicchie, e viceversa prodotti a basso contenuto estetico che creano sollievo e soddisfazione in ampie cerchie. E ci sono lavori creativi di cui potremmo fare serenamente a meno, e lavori esecutivi assolutamente indispensabili. Non si caratterizza per la forma proprietaria: ci sono piccole produzioni, partite iva o cooperative dove delle vere carogne utilizzano forme di lavoro schiavistico fra i propri addetti, e viceversa ci sono enti pubblici e aziende private nei cui interstizi e rivoli di flussi finanziari sopravvivono e si adoprano persone di grande dignità e dirittura morale. Non è pauperista – come se la fatica d’essere poveri fosse da rivendicare – e non scialacqua nell’oro.
L’indipendenza del lavoro si individua per «via sentimentale»: è il sentimento che segna il lavoro indipendente.
Questo sentimento ha i caratteri dell’attenzione, dell’affetto, dell’amicizia, della dedica e potremmo definirlo di «cura»: cura persino maniacale per quel che si compie, attenzione per tutte le cose e le persone che si coinvolgono, affetto e amicizia per le situazioni che si incontrano, che ci stanno intorno e verso e dentro le quali si svolge il nostro lavoro. E questo sia che l’attività lavorativa abbia un ambito familista sia di piccola azienda o di corporation o statale. La cura, insomma, è il tratto distintivo dei sentimenti che pervadono il lavoro indipendente, perché nella cura è riconoscibile la personalizzazione di quel che si compie, l’individuazione del nostro lavoro, il rapporto tra le nostre mani e la nostra faccia, e per questo tramite la sua «valorizzazione», cioè il suo uso e il suo scambio, sostanziandone quindi l’aspetto economico ma soprattutto il senso sociale.
Non basta che le cose che facciamo piacciano a noi, che ci mettiamo passione, entusiasmo, piacere, e ne ricaviamo soddisfazioni, materiali o immateriali: per l’indipendenza del lavoro, per la nostra indipendenza, non è sufficiente la nostra dichiarazione di autonomia – come fosse quella dei redditi. Occorre una «distinzione» sociale, pubblica. È fuori di noi che l’indipendenza del nostro lavoro assume i connotati, è nel «giudizio sociale» che essa diventa reale. Sono gli altri che possono dirci indipendenti, sono gli altri che rendono indipendente il nostro lavoro. In questo senso, il lavoro indipendente vive «dell’altrui» più che «del proprio».
Perché il lavoro indipendente costruisce «spazio e tempo» per la vita pubblica di relazione: è questa la sua «merce». Sia un luogo, un momento, un oggetto, una suggestione, un gusto, un progetto, un servizio, una risposta o una domanda, che si consuma da soli o scambiandolo con amici o in piccoli gruppi o dentro una folla, quello che si vive attraverso questa merce, anche attraverso la vita privata, è il senso di appartenere alla vita pubblica, di parteciparvi, di contribuirvi, di edificarla. Vita pubblica, vita sociale, vita cittadina, vita civile, vita attiva. Il lavoro indipendente rende comune la vita privata, come fosse la lettura in pubblico di pagine di un libro che si sono già amate seduti nelle proprie case.
Questa indipendenza del lavoro peraltro non si dà una volta per tutte. Proprio perché caratterizzata dai sentimenti, essa è soggetta ai cicli dei sentimenti, alle crisi, ai disamoramenti, alle improvvise passioni, ai tradimenti, agli abbandoni, ai ritorni e, appunto, alla fine. Certo, può capitare che siano le condizioni esterne a imporre una dura legge dell’esistenza – la crisi economica colpisce adesso soprattutto chi è indipendente, perché la circolazione monetaria s’è ristretta. Ma, più spesso, capita invece che un giorno ci si accorga di sentirsi logori e stanchi, e si decida di accettare l’offerta favorevole e diabolica che fino a quel momento s’era rifiutata, e si chiude bottega, si passa di livello, si modificano le caratteristiche del proprio prodotto o della filiera, si rivolge il proprio sguardo, la propria sapienza e la propria intelligenza a tutte quelle cose che prima si consideravano assurde e a quei soggetti e situazioni che si sentivano distanti. Magari, anzi li si spengono, il proprio sguardo, la propria sapienza, la propria intelligenza: quasi sempre, non sono richiesti. Si diventa, insomma, «dipendenti»: meno affanni, meno responsabilità, meno sbattimenti.
Ma sta qui un nodo della questione: mentre il lavoro indipendente costruisce vita sociale, vita di relazione, comprensibile e riconoscibile e godibile da chi lo usa e scambia, nello stesso tempo non è in grado di intessere relazioni al proprio interno. Perché non è un’area sociale, un ceto, una classe – qualcosa di riconoscibile attraverso l’indagine economica, sociologica o il diritto privato –, il «quinto stato» che avanza: è un movimento, cioè una dinamica reale e una tensione ideale che camminano in una forbice che va divaricandosi, indipendenza da una parte, «comune» dall’altra. Ed è la fragilità di questa propria consapevolezza che rende temporanea e caduca la vita sociale che costruisce, ovvero il «comune» che produce.
Ma la risposta a questa questione non è di organizzazione sindacale, come si trattasse di fondare il sindacato dei lavoratori indipendenti. Troppo diverse le condizioni dell’indipendenza del lavoro, qui precario lì garantito, qui ditta individuale lì dentro una catena di comparti, qui soffocato da tasse e prelievi lì senza uno straccio di busta-paga. Ciascuno fa e saprà fare la propria battaglia sindacale. Il punto centrale è il tramite, la mediazione fra lavoro indipendente, vita privata e vita sociale, uso e scambio, ciò che lega e fa da collante, ciò che rovescia l’atomizzazione del lavoro in un senso di produzione comune: questo tramite è il territorio, è la città, è Roma.
È nella relazione consapevole e cosciente e diretta fra lavoro indipendente e territorio, fra indipendenza del lavoro e Roma che sta il cuore delle cose. È nella rivendicazione tutta politica del governo indipendente di Roma che sta il cuore delle cose.
È qui, peraltro, in questo «sentimento», che l’indipendenza del lavoro potrà farsi indipendenza dal lavoro: quando il processo di indipendenza economica diventerà tutt’intero processo di indipendenza politica.

La nuova «questione romana»
Roma oggi è poco più di un’espressione geografica. La sua storia – che ha ispirato le grandi rivoluzioni politiche della modernità – ridotta a nozioni scolastiche o banali informazioni da depliant per frotte di scomposti turisti. Il sogno risorgimentale che vedeva nella riconquista di Roma e nel suo ruolo di capitale la fondazione di una nazione segnata dallo spirito di quella storia si è tramutato nel suo opposto: la politica nazionale ha occupato la città saccheggiandola come ondate di barbari. I politici nazionali amministrano l’enorme flusso finanziario del prelievo fiscale, diretto e indiretto, come antichi latifondisti, proprietari di una «rendita» che è solo lo sfruttamento parassitario e corrotto di quello che la nostra vita comune è in grado di produrre e consumare. I politici nazionali sono una tirannia della «manomorta». La gestione della cosa pubblica è la rete di canali e scoli di questi flussi finanziari: come la cloaca maxima. Da dentro, ci si può solo impregnare. È da fuori, nel processo di indipendenza, è all’aria aperta che soltanto è possibile ricostruire la politica come senso civico, ambizione di eccellere fra i grandi, vita attiva al servizio della socialità cui si appartiene.
È tempo di rivendicare Roma a se stessa. L’Italia ormai è in lacerti e brandelli, tra attestazioni di territori del nord e del sud, di regioni e di aree, piccoli «regni» locali e «granducati», tenuta insieme da un regime guidato come una monarchia che progressivamente corrompe la democrazia in forme autoritarie con una finzione di Stato unitario che si esercita soprattutto qui a Roma, gravando con un peso insopportabile.
E intanto lo Stato pontificio, invece di restare condizionato al suo ruolo spirituale, ha ingigantito la sua «presa» sui corpi e sulle menti, ponendosi come ultima autorità e producendo amministratori e cittadini deboli, superstiziosi, impauriti.
Roma è ormai città di rappresentanza, di rappresentazioni nazionali e internazionali: serve per fornire palazzi e giardini, scenografie che grondano storia – e che dovrebbero incutere rispetto e timore, risvegliare onore e gloria di spirito pubblico, invece del banale luogo comune della “dolce vita” – ma che sono diventate poco più che fondali di scena, dove si mimano interessi e diplomazie già decisi altrove. Quale miserabile fine!
È tempo di liberare Roma: la liberazione di Roma è di nuovo all’ordine del giorno della storia. Roma libera, sia il nostro grido.
Non ci anima alcun localismo, alcun nazionalismo, alcun municipalismo: nessuno spirito di «suolo e sangue». D’altra parte, come sarebbe mai possibile circoscrivere, separare Roma dal resto del mondo, dell’umanità? Semmai, al contrario, si tratta proprio di restituire Roma al mondo, di rifondare il suo ruolo storico di città universale.
Non ci anima alcun interesse privato. Quello che possediamo – i nostri talenti, le nostre conoscenze, le nostre capacità – rimane sempre con noi. Quello che noi vogliamo è il diritto di usare queste nostre capacità come meglio crediamo, di non metterle «a padrone» – che sia pubblico o aziendale, poco importa –, perché non sanno fare e non gliene frega niente di fare bene.
Non ci anima alcun interesse supremo e un fine ultimo: la Ragione, la Volontà generale, lo Spirito della storia.
Ma questa politica non è più in grado di proteggerci, di proteggere la ricchezza che produciamo e di proteggere le nostre stesse vite. Questa politica ci sta portando alla rovina. E le soluzioni che prospetta, per insipienza e per incoscienza – riduzione della prosperità sociale, della mobilità, della scienza, degli scambi, con un nuovo Stato ancora più occhiuto, ancora più autarchico, ancora più militarizzato –, sono quasi peggiori dei pericoli che incombono e che ci minacciano. Controllo nazionale delle banche, controllo nazionale delle aziende, controllo nazionale degli scambi, controllo nazionale della democrazia: questo è il «pubblico» che avanza. Non è in un mondo più chiuso che è la nostra salvezza, non è in un mondo più ignorante che è la nostra salvezza, non è in un mondo con più birri e più forche che è la nostra salvezza. Forse servono a loro queste cose, a fare sentire loro più sicuri, non noi. Un nuovo mondo di tecnica, di prossimità, di scienza sta premendo. Un diritto inalienabile di vivere indipendentemente sta premendo. Se questa condizione non trova «forma», diritti materiali, se non trova una nuova sovranità, una nuova autorità, si dilania, impazzisce, divora se stesso. È questo il «pericolo pubblico» che ci minaccia. Se entriamo in un ospedale non sappiamo se ne usciremo vivi, se camminiamo per strada non sappiamo se verremo travolti, se andiamo al lavoro non sappiamo se a sera torneremo a casa: come ricostruiamo responsabilità individuale e collettiva? Col terrore? È vero, questo Paese è andato avanti per via di consuetudini spesso al limite quando non fuori dalle regole. Ma erano le regole che non funzionavano, non le consuetudini: le consuetudini facevano andare avanti le cose. Ripristinare le regole, che già non funzionavano, significa strozzare tutto; restringerle ancora, quando tutto è saltato, è solo una operazione di terrore. E il terrore porta alla rovina. Mai come ora le nostre vite private, le nostre stesse vite vengono sospinte verso la vita pubblica, verso il «comune», verso la città.
È un nuovo repubblicanesimo quello che ci anima, è una nuova repubblica quella a cui aspiriamo, è una nuova Repubblica romana quella che sogniamo.
A organizzare la libertà, a come potrebbe essere una Roma libera dalla tirannia della politica nazionale e dalla prevaricazione papista, possiamo pensarci fin da subito: ci sono talenti e competenze, esperienze e generosità, in grado già da adesso di disegnare una città diversa. E semplice da amministrare. Lo faremo.
Ma il nodo centrale è il potere. Ed è bene dirlo fuori dai denti, a lettere cubitali, per essere chiari, limpidi e comprensibili. Tutte le lotte e le battaglie saranno conquiste necessarie ma finché il potere non sarà nelle nostre mani, finché sul Campidoglio non svetterà la bandiera della nuova Repubblica romana saranno temporanee. E affinché quella bandiera sventoli è necessaria un’insurrezione. Nessuna congiura, nessuna clandestinità, nessuna carboneria, nessun pugnale nell’ombra. La «nostra» insurrezione è alla luce del sole. È pubblica. È per la democrazia. È per la produzione. È per lo scambio. La nostra insurrezione non aspetta l’ora X, è già cominciata. La nostra insurrezione è permanente. È nel Risvegliamento delle coscienze e degli spiriti, nella fierezza del sentimento repubblicano, nell’opposizione strenua alla coatteria morale, al degrado del senso civico, alla corruzione della politica, è qui che è già cominciata la nostra insurrezione.
La liberazione di Roma è di nuovo all’ordine del giorno della storia.
Tacete, politici!
Roma libera, è il nostro grido. Accorrete! Accorrete!

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