giovedì 30 aprile 2009

La Repubblica Romana del 1849: 160 anni dopo

Roma, 5-5-2009. Incontro con Claudio Fracassi
Martedì 5 Maggio ore 21.00 presso: Centro Socio Culturale Garbatella

La Repubblica Romana del 1849: 160 anni dopo
Roma, 5-5-2009. Incontro con Claudio Fracassi autore de La meravigliosa storia della repubblica dei briganti (2005) e de La Ribelle e Il Papa Re (2009) a cura del Gruppo Laico di ricerca
Associazione culturale GRUPPO LAICO DI RICERCA 2009

LA REPUBBLICA ROMANA del 1849: 160 anni dopo…
Il 25 novembre del 1848 Pio IX fugge a Gaeta ed il 9 febbraio 1849 viene proclamata la seconda Repubblica romana, il cui decreto recita all'articolo 3: "La forma del Governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura". Un esperimento fondamentale, se pur drammaticamente breve, per poter costruire un’Italia e una città di Roma libere da ingerenze clericali e una democrazia di altissimo spessore. Un esperimento da ricordare e riscoprire in un’Italia che appare ben lontana da quegli ideali e da ogni forma di laicità.

Martedì 5 Maggio ore 21,00

L’eredità storica del primo esperimento di un’Italia repubblicana, laica e democratica.
Incontro con CLAUDIO FRACASSI
Presso: Centro Socio Culturale Garbatella

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domenica 29 marzo 2009

Invito - presentazione del quarto numero

Il quarto numero de «la Repubblica romana» appena uscito prova a spiegare con più ampiezza di argomentazioni – ha adesso quattro pagine – il senso di un nuovo repubblicanesimo, dell’opposizione alla politica nazionale, di un percorso di indipendenza. Con Roma, la sua storia e la sua attualità, al cuore delle cose. Una nuova «questione romana».
Ti invitiamo alla presentazione di questo nuovo numero, venerdi’ 3 aprile alle ore 18, presso la libreria Flexi in via Clementina, 9 – a Monti. È un’occasione per conoscersi, per ragionare insieme del «che fare». Mettila in agenda.
Ti aspettiamo, a venerdì

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giovedì 26 marzo 2009

Tacete, politici!

Lacrime, sudore e sangue
Lacrime, sudore e sangue. Così i politici ci raccontano la crisi economica. Ma nostre saranno le lacrime, non le loro. Nostro il sudore e il sangue, non il loro. I politici ci chiamano alla mobilitazione, come in guerra, contro nemici invisibili e lontani: la finanza malvagia, la globalizzazione perversa. Ma nella terra di trincea stiamo noi. A noi chiedono di tenere duro, di tirare la cinghia: coraggio e sacrifici non sono il loro pane e companatico, ma il nostro.



Lacrime, sudore e sangue. La crisi è la nuova religione, il nuovo monoteismo, il nuovo dio dalla faccia ora terribile e ora caritatevole a cui rivolgere le nostre preghiere. Esibita o malcelata, intonata a coro o sussurrata, come ogni religione serve a intimidirci e a cercare conforto. La crisi è sovrannaturale, non è umana, non ha nomi, cognomi, indirizzi, responsabili: e la nostra salvezza starebbe tutta nel credere con fede cieca nelle loro formule, nei loro riti, nei loro incensi.
Lacrime, sudore e sangue. Chi racconta come vanno le cose del mondo, possiede il mondo. Ora c’è un solo libro del mondo: la crisi. Le storie si sono impoverite, le parole si sono impoverite. La crisi è la nuova liturgia, la nuova narrazione del potere.
Ma qui vogliamo raccontare un’altra storia: una storia fatta di produzione e scienza, di tecnica e prosperità, di ricchezza e distribuzione, di autonomie e indipendenza, di intelligenze e saperi, di autogoverno e libertà, di sentimenti e diritti, di territori e comunità, di presente e di futuro. Qui si racconta un’altra storia. Chi racconta come vanno le cose del mondo, possiede il mondo.
Sarà pure vero – come dicono a Palazzo – che «prima o poi le crisi passano, che le crisi sono cicliche, che tutto sommato ce la facciamo», però noi non vediamo cieli azzurri sopra le nostre teste, ma una tempesta. Questa che è esplosa non è solo «economia», è la crisi del loro mondo, dei loro princìpi, delle loro regole, delle loro istituzioni. Il mondo è andato a pezzi perché non funzionano più quei princìpi, quelle regole, quelle istituzioni. E non funzionano più perché non riescono a comprendere e rappresentare i nostri comportamenti, i nostri bisogni e i nostri desideri. Noi non siamo catastrofisti, ma è di tutta evidenza che nessuno di loro ha capito la crisi che arrivava: davvero qualcuno crede ancora alla favoletta che cinquantamila miliardi di dollari – il «prezzo» del prodotto globale di un anno – siano andati in fumo per quattro mutui subprime americani sulla casa e quaranta ladroni? Cos’è, una sorta di Tangentomondo di mariuoli globali? E nessuno di loro ha la più pallida idea di come tirarsene fuori. Alambiccano idee, progettano ora questo ora quello, tirano alla giornata. L’unica cosa che regge un po’, come sacchetti di sabbia mentre tutto esonda, sono le vestigia di quello Stato sociale che destra e sinistra da anni hanno ridotto o smantellato. Caduti in uno sprofondo, fuori di senno, provano a uscirne sollevandosi per i capelli.
Ma è la potenza della tecnica che ha sovvertito le regole, non la crisi: non siamo solo enormemente più produttivi dei nostri padri, ma possiamo esserlo condannandoci di meno al lavoro. Non siamo solo enormemente più produttivi dei nostri padri, ma possiamo esserlo di meno. Possiamo vivere senza condannarci al lavoro. Possiamo vivere una vita ricca e non misera, sociale e non marginale, ambiziosa e non squallida senza condannarci al lavoro. Questa è la consapevolezza che ci ha dato la tecnica, che ci ha dato lo sviluppo delle nostre facoltà produttive: che possiamo fare a meno del lavoro. Che non dobbiamo essere morti per fare a meno del lavoro. Possiamo interessarci del mondo, curare il mondo e noi stessi, senza essere schiavi del lavoro. Da sempre ci siamo chiesti: Come posso fare di questa cosa un’altra?, ora possiamo chiederci: Come dare valore alla nostra vita? A Palazzo, questo non va giù. Il risparmio di lavoro si rovescia in disoccupazione. Schiavi del lavoro, morti di lavoro dobbiamo restare. Con la deregulation, eravamo elemosinanti di lavoro, con la new regulation saremo elemosinanti di lavoro.
Ma è la prossimità del mondo che ha sovvertito le regole, non la crisi: mangiamo, vestiamo, usiamo, guardiamo cose inimmaginabili per i nostri padri, possiamo andare ovunque e da ovunque possono venire da noi. Vediamo cose che per i nostri padri appartenevano a un altro mondo. Ora sono a portata di mano. Adesso sappiamo suoni e colori e odori che nemmeno conoscevamo. Tutto questo ci incute timore – noi stessi ne siamo spaventati, avendo perso identità e sicurezze, quelle che avevano i nostri padri – ma ci affascina. Mai l’uomo ha potuto avere una simile sensazione di appartenere all’umanità tutta intera e che l’umanità tutta intera gli appartiene: sentiamo che qui sta una ragione del nostro stare al mondo. Da sempre ci siamo chiesti: Chi siamo?, ora ci chiediamo: Cosa possiamo? A Palazzo, questo non va giù. Nemici l’uno dell’altro, ostili delle nostre solitudini, avidi difensori delle cose possedute, dei nostri limiti dobbiamo restare.
Ma sono le scoperte della scienza che hanno sovvertito le regole, non la crisi: scopriamo di avere molto più tempo di quello che hanno avuto i nostri padri per le loro vite, che i nostri corpi possono essere meglio medicati e sanati, che possono restare vitali a lungo, che i nostri sentimenti di affetto e di amicizia possono perdurare. I limiti della vita e della morte si spostano, le forme della riproduzione si modificano, i nuclei di relazione della nostra intimità oltrepassano la famiglia tradizionale legata al sangue. Siamo stupefatti e turbati di queste possibilità, come se la scienza ci donasse tante altre vite, invece di quella sola che ci dà la natura, con una sola storia. Siamo cauti, ma procediamo per sperimentare, perché chi venga dopo trovi ancora più possibilità, più opportunità, più speranze. Trovi meno dolore, più saggezza e felicità. A Palazzo, questo non va giù. Dannatamente oscurantisti, per loro il sole gira sempre intorno a una terra piatta, perché è nel buio che possono comandare la nostra paura.
È la potenza della tecnica, è la prossimità del mondo, sono le scoperte della scienza – i processi che mettono l’uomo «in comune» con se stesso e con gli altri – che hanno sovvertito le regole, non la crisi. La crisi viene dopo, la crisi viene adesso per fermare tutto. Meglio distruggerla, la ricchezza, che permettere che essa si distribuisca e si riproduca senza controllo. Così congiurano a Palazzo. È il Palazzo che diventa insolvente, non questa o quella banca. Quell’enorme accumulazione di capitale – cinquantamila miliardi di dollari – invece di essere investita nella tecnica, per avere più prosperità e meno lavoro, nella scienza, per avere più salute e meno dolore, nella prossimità del mondo, per avere più libertà di movimento e meno confini, è rimasta «segno», moneta virtuale di conto, come averla messa sotto i materassi, andata in fumo. È morta. Sono stupidi o sono malvagi? Sono stupidi e malvagi. Distruggendola, si rifonderanno gerarchie e autorità, centralità degli stati e delle nazioni, bisognerà ricostruire e ricondannarci alle regole del bisogno, del dovere, della necessità e del lavoro, bisognerà restringere i confini e farci difendere le nostre patrie, bisognerà lasciare che la provvidenza faccia il suo corso.
Così vanno le cose del mondo. Questa è la storia che noi raccontiamo: oltre la crisi, per il Palazzo c’è più Stato e più fatica, per noi più libertà e più felicità.
Questa storia la raccontiamo nei territori dove stiamo di casa, nelle città che abitiamo, nei luoghi che amiamo e a cui prestiamo attenzione, per i quali ci battiamo, perché è qui che si svolgono le nostre vite, è qui che si costruiscono le nostre relazioni, è qui che il nostro «amor proprio» – il sentimento di cura delle nostre singolarità – diventa «luogo comune» con gli altri. La raccontiamo a Roma perché è qui che abbiamo il caso e il privilegio di vivere.
Un privilegio, perché vivere a Roma è anche essere narrati dalla storia, misurarsi a ogni passo con un «laboratorio» di secoli, non dell’altro ieri, dove la potenza, la tecnica, la prossimità del mondo, la scienza – di volta in volta, nel tempo – hanno costruito un’idea di libertà, di diritti, di felicità, di cittadinanza, di universalità.
Se c’è un luogo al mondo dove più dolorosa e stridente è la sciatteria del potere, l’incuria del dominio, la mediocrità del comando – la sciatteria, l’incuria, la mediocrità del Palazzo –, questo è Roma: perché qui, e per questo appartiene al mondo, sono ancora visibili e perenni i segni di un tentativo grandioso e terribile di trovare una misura tra la propria finitezza e l’eternità, tra la propria singolarità e l’universalità, tra l’utilità e la bellezza, tra i diritti e le libertà, tra le proprie mura domestiche e lo spazio pubblico.
Liberare Roma, battersi per l’indipendenza di Roma significa allora restituire a noi stessi e al mondo quelle domande, cercando le risposte nel presente, nell’adesso, nell’ora e nel qui.
È di Roma che vogliamo parlare. Della sua indipendenza politica, della sua indipendenza produttiva.

Produttori di indipendenza
Il processo dell’indipendenza politica si intreccia e poggia sui processi di indipendenza del lavoro.
Questa indipendenza del lavoro è bastarda, e non si dà «pura» in natura. Non la si rintraccia a mezzo degli indicatori economici: numero di addetti, capitale sociale, volume di transazioni, o per le dimensioni ridotte o di scala. Né per le forme contrattuali entro le quali si configura: tempo indeterminato, a termine, a progetto, part-time. Non è il lavoro autonomo né il lavoro subordinato. Essa non è riconoscibile per i modi della sua esecuzione, se a esempio si svolge trattando linguaggi, segni, comunicazione, forme, visioni, o se piuttosto è manualmente avvezza alla durezza del ferro e del cemento: ci sono cani che ringhiano rabbiosi dietro l’apparente inconsistenza delle cose, e viceversa cuori disponibili e menti aperte che nessuna ruvidezza quotidiana riesce a scalfire. Né la si individua attraverso l’immaterialità o materialità dei prodotti: ci sono prodotti immateriali altamente tossici per la socialità, e viceversa prodotti materiali assolutamente benefici. Non si evidenzia per la «qualità», la bellezza e il valore culturale del prodotto: ci sono prodotti di fattura straordinaria che sono assolutamente inutili o destinati a minime nicchie, e viceversa prodotti a basso contenuto estetico che creano sollievo e soddisfazione in ampie cerchie. E ci sono lavori creativi di cui potremmo fare serenamente a meno, e lavori esecutivi assolutamente indispensabili. Non si caratterizza per la forma proprietaria: ci sono piccole produzioni, partite iva o cooperative dove delle vere carogne utilizzano forme di lavoro schiavistico fra i propri addetti, e viceversa ci sono enti pubblici e aziende private nei cui interstizi e rivoli di flussi finanziari sopravvivono e si adoprano persone di grande dignità e dirittura morale. Non è pauperista – come se la fatica d’essere poveri fosse da rivendicare – e non scialacqua nell’oro.
L’indipendenza del lavoro si individua per «via sentimentale»: è il sentimento che segna il lavoro indipendente.
Questo sentimento ha i caratteri dell’attenzione, dell’affetto, dell’amicizia, della dedica e potremmo definirlo di «cura»: cura persino maniacale per quel che si compie, attenzione per tutte le cose e le persone che si coinvolgono, affetto e amicizia per le situazioni che si incontrano, che ci stanno intorno e verso e dentro le quali si svolge il nostro lavoro. E questo sia che l’attività lavorativa abbia un ambito familista sia di piccola azienda o di corporation o statale. La cura, insomma, è il tratto distintivo dei sentimenti che pervadono il lavoro indipendente, perché nella cura è riconoscibile la personalizzazione di quel che si compie, l’individuazione del nostro lavoro, il rapporto tra le nostre mani e la nostra faccia, e per questo tramite la sua «valorizzazione», cioè il suo uso e il suo scambio, sostanziandone quindi l’aspetto economico ma soprattutto il senso sociale.
Non basta che le cose che facciamo piacciano a noi, che ci mettiamo passione, entusiasmo, piacere, e ne ricaviamo soddisfazioni, materiali o immateriali: per l’indipendenza del lavoro, per la nostra indipendenza, non è sufficiente la nostra dichiarazione di autonomia – come fosse quella dei redditi. Occorre una «distinzione» sociale, pubblica. È fuori di noi che l’indipendenza del nostro lavoro assume i connotati, è nel «giudizio sociale» che essa diventa reale. Sono gli altri che possono dirci indipendenti, sono gli altri che rendono indipendente il nostro lavoro. In questo senso, il lavoro indipendente vive «dell’altrui» più che «del proprio».
Perché il lavoro indipendente costruisce «spazio e tempo» per la vita pubblica di relazione: è questa la sua «merce». Sia un luogo, un momento, un oggetto, una suggestione, un gusto, un progetto, un servizio, una risposta o una domanda, che si consuma da soli o scambiandolo con amici o in piccoli gruppi o dentro una folla, quello che si vive attraverso questa merce, anche attraverso la vita privata, è il senso di appartenere alla vita pubblica, di parteciparvi, di contribuirvi, di edificarla. Vita pubblica, vita sociale, vita cittadina, vita civile, vita attiva. Il lavoro indipendente rende comune la vita privata, come fosse la lettura in pubblico di pagine di un libro che si sono già amate seduti nelle proprie case.
Questa indipendenza del lavoro peraltro non si dà una volta per tutte. Proprio perché caratterizzata dai sentimenti, essa è soggetta ai cicli dei sentimenti, alle crisi, ai disamoramenti, alle improvvise passioni, ai tradimenti, agli abbandoni, ai ritorni e, appunto, alla fine. Certo, può capitare che siano le condizioni esterne a imporre una dura legge dell’esistenza – la crisi economica colpisce adesso soprattutto chi è indipendente, perché la circolazione monetaria s’è ristretta. Ma, più spesso, capita invece che un giorno ci si accorga di sentirsi logori e stanchi, e si decida di accettare l’offerta favorevole e diabolica che fino a quel momento s’era rifiutata, e si chiude bottega, si passa di livello, si modificano le caratteristiche del proprio prodotto o della filiera, si rivolge il proprio sguardo, la propria sapienza e la propria intelligenza a tutte quelle cose che prima si consideravano assurde e a quei soggetti e situazioni che si sentivano distanti. Magari, anzi li si spengono, il proprio sguardo, la propria sapienza, la propria intelligenza: quasi sempre, non sono richiesti. Si diventa, insomma, «dipendenti»: meno affanni, meno responsabilità, meno sbattimenti.
Ma sta qui un nodo della questione: mentre il lavoro indipendente costruisce vita sociale, vita di relazione, comprensibile e riconoscibile e godibile da chi lo usa e scambia, nello stesso tempo non è in grado di intessere relazioni al proprio interno. Perché non è un’area sociale, un ceto, una classe – qualcosa di riconoscibile attraverso l’indagine economica, sociologica o il diritto privato –, il «quinto stato» che avanza: è un movimento, cioè una dinamica reale e una tensione ideale che camminano in una forbice che va divaricandosi, indipendenza da una parte, «comune» dall’altra. Ed è la fragilità di questa propria consapevolezza che rende temporanea e caduca la vita sociale che costruisce, ovvero il «comune» che produce.
Ma la risposta a questa questione non è di organizzazione sindacale, come si trattasse di fondare il sindacato dei lavoratori indipendenti. Troppo diverse le condizioni dell’indipendenza del lavoro, qui precario lì garantito, qui ditta individuale lì dentro una catena di comparti, qui soffocato da tasse e prelievi lì senza uno straccio di busta-paga. Ciascuno fa e saprà fare la propria battaglia sindacale. Il punto centrale è il tramite, la mediazione fra lavoro indipendente, vita privata e vita sociale, uso e scambio, ciò che lega e fa da collante, ciò che rovescia l’atomizzazione del lavoro in un senso di produzione comune: questo tramite è il territorio, è la città, è Roma.
È nella relazione consapevole e cosciente e diretta fra lavoro indipendente e territorio, fra indipendenza del lavoro e Roma che sta il cuore delle cose. È nella rivendicazione tutta politica del governo indipendente di Roma che sta il cuore delle cose.
È qui, peraltro, in questo «sentimento», che l’indipendenza del lavoro potrà farsi indipendenza dal lavoro: quando il processo di indipendenza economica diventerà tutt’intero processo di indipendenza politica.

La nuova «questione romana»
Roma oggi è poco più di un’espressione geografica. La sua storia – che ha ispirato le grandi rivoluzioni politiche della modernità – ridotta a nozioni scolastiche o banali informazioni da depliant per frotte di scomposti turisti. Il sogno risorgimentale che vedeva nella riconquista di Roma e nel suo ruolo di capitale la fondazione di una nazione segnata dallo spirito di quella storia si è tramutato nel suo opposto: la politica nazionale ha occupato la città saccheggiandola come ondate di barbari. I politici nazionali amministrano l’enorme flusso finanziario del prelievo fiscale, diretto e indiretto, come antichi latifondisti, proprietari di una «rendita» che è solo lo sfruttamento parassitario e corrotto di quello che la nostra vita comune è in grado di produrre e consumare. I politici nazionali sono una tirannia della «manomorta». La gestione della cosa pubblica è la rete di canali e scoli di questi flussi finanziari: come la cloaca maxima. Da dentro, ci si può solo impregnare. È da fuori, nel processo di indipendenza, è all’aria aperta che soltanto è possibile ricostruire la politica come senso civico, ambizione di eccellere fra i grandi, vita attiva al servizio della socialità cui si appartiene.
È tempo di rivendicare Roma a se stessa. L’Italia ormai è in lacerti e brandelli, tra attestazioni di territori del nord e del sud, di regioni e di aree, piccoli «regni» locali e «granducati», tenuta insieme da un regime guidato come una monarchia che progressivamente corrompe la democrazia in forme autoritarie con una finzione di Stato unitario che si esercita soprattutto qui a Roma, gravando con un peso insopportabile.
E intanto lo Stato pontificio, invece di restare condizionato al suo ruolo spirituale, ha ingigantito la sua «presa» sui corpi e sulle menti, ponendosi come ultima autorità e producendo amministratori e cittadini deboli, superstiziosi, impauriti.
Roma è ormai città di rappresentanza, di rappresentazioni nazionali e internazionali: serve per fornire palazzi e giardini, scenografie che grondano storia – e che dovrebbero incutere rispetto e timore, risvegliare onore e gloria di spirito pubblico, invece del banale luogo comune della “dolce vita” – ma che sono diventate poco più che fondali di scena, dove si mimano interessi e diplomazie già decisi altrove. Quale miserabile fine!
È tempo di liberare Roma: la liberazione di Roma è di nuovo all’ordine del giorno della storia. Roma libera, sia il nostro grido.
Non ci anima alcun localismo, alcun nazionalismo, alcun municipalismo: nessuno spirito di «suolo e sangue». D’altra parte, come sarebbe mai possibile circoscrivere, separare Roma dal resto del mondo, dell’umanità? Semmai, al contrario, si tratta proprio di restituire Roma al mondo, di rifondare il suo ruolo storico di città universale.
Non ci anima alcun interesse privato. Quello che possediamo – i nostri talenti, le nostre conoscenze, le nostre capacità – rimane sempre con noi. Quello che noi vogliamo è il diritto di usare queste nostre capacità come meglio crediamo, di non metterle «a padrone» – che sia pubblico o aziendale, poco importa –, perché non sanno fare e non gliene frega niente di fare bene.
Non ci anima alcun interesse supremo e un fine ultimo: la Ragione, la Volontà generale, lo Spirito della storia.
Ma questa politica non è più in grado di proteggerci, di proteggere la ricchezza che produciamo e di proteggere le nostre stesse vite. Questa politica ci sta portando alla rovina. E le soluzioni che prospetta, per insipienza e per incoscienza – riduzione della prosperità sociale, della mobilità, della scienza, degli scambi, con un nuovo Stato ancora più occhiuto, ancora più autarchico, ancora più militarizzato –, sono quasi peggiori dei pericoli che incombono e che ci minacciano. Controllo nazionale delle banche, controllo nazionale delle aziende, controllo nazionale degli scambi, controllo nazionale della democrazia: questo è il «pubblico» che avanza. Non è in un mondo più chiuso che è la nostra salvezza, non è in un mondo più ignorante che è la nostra salvezza, non è in un mondo con più birri e più forche che è la nostra salvezza. Forse servono a loro queste cose, a fare sentire loro più sicuri, non noi. Un nuovo mondo di tecnica, di prossimità, di scienza sta premendo. Un diritto inalienabile di vivere indipendentemente sta premendo. Se questa condizione non trova «forma», diritti materiali, se non trova una nuova sovranità, una nuova autorità, si dilania, impazzisce, divora se stesso. È questo il «pericolo pubblico» che ci minaccia. Se entriamo in un ospedale non sappiamo se ne usciremo vivi, se camminiamo per strada non sappiamo se verremo travolti, se andiamo al lavoro non sappiamo se a sera torneremo a casa: come ricostruiamo responsabilità individuale e collettiva? Col terrore? È vero, questo Paese è andato avanti per via di consuetudini spesso al limite quando non fuori dalle regole. Ma erano le regole che non funzionavano, non le consuetudini: le consuetudini facevano andare avanti le cose. Ripristinare le regole, che già non funzionavano, significa strozzare tutto; restringerle ancora, quando tutto è saltato, è solo una operazione di terrore. E il terrore porta alla rovina. Mai come ora le nostre vite private, le nostre stesse vite vengono sospinte verso la vita pubblica, verso il «comune», verso la città.
È un nuovo repubblicanesimo quello che ci anima, è una nuova repubblica quella a cui aspiriamo, è una nuova Repubblica romana quella che sogniamo.
A organizzare la libertà, a come potrebbe essere una Roma libera dalla tirannia della politica nazionale e dalla prevaricazione papista, possiamo pensarci fin da subito: ci sono talenti e competenze, esperienze e generosità, in grado già da adesso di disegnare una città diversa. E semplice da amministrare. Lo faremo.
Ma il nodo centrale è il potere. Ed è bene dirlo fuori dai denti, a lettere cubitali, per essere chiari, limpidi e comprensibili. Tutte le lotte e le battaglie saranno conquiste necessarie ma finché il potere non sarà nelle nostre mani, finché sul Campidoglio non svetterà la bandiera della nuova Repubblica romana saranno temporanee. E affinché quella bandiera sventoli è necessaria un’insurrezione. Nessuna congiura, nessuna clandestinità, nessuna carboneria, nessun pugnale nell’ombra. La «nostra» insurrezione è alla luce del sole. È pubblica. È per la democrazia. È per la produzione. È per lo scambio. La nostra insurrezione non aspetta l’ora X, è già cominciata. La nostra insurrezione è permanente. È nel Risvegliamento delle coscienze e degli spiriti, nella fierezza del sentimento repubblicano, nell’opposizione strenua alla coatteria morale, al degrado del senso civico, alla corruzione della politica, è qui che è già cominciata la nostra insurrezione.
La liberazione di Roma è di nuovo all’ordine del giorno della storia.
Tacete, politici!
Roma libera, è il nostro grido. Accorrete! Accorrete!

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sabato 7 febbraio 2009

dichiarazione del 9 febbraio 2009

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martedì 20 gennaio 2009

Sono loro la crisi


«Siamo in crisi, siamo in recessione». È la cantilena di questi mesi, la musichetta di fondo di ogni questione, di ogni discussione, di ogni ragionamento: non ci sono soldi per gli investimenti, non ci sono soldi per le riparazioni e le manutenzioni, non ci sono soldi per le assunzioni, non ci sono soldi per l’assistenza, non ci sono soldi per rinnovare le convenzioni, non ci sono soldi per la ricerca, non ci sono soldi per gli eventi, non ci sono soldi per le pubblicità e le promozioni. Non ci sono soldi per niente. Siamo col culo per terra, con l’acqua alla gola, con la merda sino al collo. E il peggio deve ancora venire. Le statistiche corroborano la profezia: sembrano le previsioni di un lungo freddo inverno, tutte a segno sotto zero. Non produciamo, non compriamo, non risparmiamo, non cresciamo. Chissà che cosa stiamo facendo intanto.
La crisi ci viene narrata come la «storia» di una finanza di speculatori fuori controllo dal potere delle Banche centrali e dei governi. Invece, non ci sono innocenti: le Banche centrali e i governi sapevano e hanno consentito qualsiasi manovra speculativa, sicuri di contenere quel denaro «di fantasia», e anzi intenti a sfruttarne volume e mobilità senza confini, senza leggi di gravità, per pompare economie e consumi. Per costruire consenso. E, d’altronde, a questo serve il denaro «inventato», a produrre e consumare. A costruire consenso. Una bolla finanziaria è stata fatta lievitare per sostenere il crollo di un’altra. Non ci sono innocenti: il «sogno» di fare denaro standosene in panciolle con in tasca il biglietto vincente della
lotteria aveva catturato facilmente risparmiatori di ogni risma e taglia. Non c’entra niente la non-corrispondenza fra economia «materiale» e «immateriale». È da un bel pezzo che a tot moneta, a tot valore non corrispondono tot merci, all’incirca da quando sono nate le banche e il credito. La folle corsa al nuovo Eldorado si basava su un dato ben materiale: una illimitata possibilità di produrre e consumare del mondo, era questo il «futuro» su cui si rischiava, un futuro senza scarsità. Questa possibilità ha prodotto una non-corrispondenza e un conflitto fra valori – il presente e il futuro, la moneta e il credito, i prezzi e i profitti –, non fra valori e merci. Una confusione della temporalità, fra l’adesso e un domani.
Le merci adesso ci vanno di mezzo. I lavori adesso ci vanno di mezzo. Sono i «danni collaterali». Parlano di una generale «distruzione della ricchezza», ma la nostra capacità di produrre è intatta, la nostra creatività è intatta, la nostra tecnologia è intatta. Venisse anche una apocalisse, non è che il giorno dopo diventeremmo trogloditi, analfabeti, selvaggi, regredendo all’età della pietra: quello che sappiamo fare, la nostra conoscenza, la nostra abilità, i nostri saperi rimangono gli stessi. Quello che si è inceppato, quello che è andato fuori controllo è quello che non funzionava già prima. La capacità di produrre qualsiasi merce a costi bassi è ormai elevata, la possibilità di reperire materie prime a prezzi giusti è ormai estesa, l’opportunità di commerciare e scambiare ovunque è ormai praticabile comunemente. Ma questa ricchezza, questa potenza concreta, reale, materiale è mortificata e deformata. Inceppata, perché costretta al «privato», alla ricchezza per qualcuno anziché per tutti. Per loro, la ricchezza, questa nostra ricchezza, va finalizzata al profitto; per noi, la ricchezza significa liberarci dalla fatica, vivere una vita serena e migliore, dedicarci alla felicità. Solo che il profitto – l’avidità di profitto, non il giusto guadagno – è ormai diventato anacronistico. Esso ha avuto un ruolo nella generale produzione di beni, quando il mondo era segnato e piagato dalla necessità, dal bisogno, dalla scarsità. È stata la molla individuale che ha funzionato di più e meglio d’ogni attrazione collettivistica. Oggi è storicamente illecito, illegittimo, incostituzionale. Oggi la molla all’accaparramento privato, che può darsi solo contro la spinta alla crescita comune, è disgustosa e insopportabile. E come ogni cosa anacronistica, priva di senso comune, perché sussistano ancora il suo dominio e i suoi privilegi già dati, diventa violento. Stupidamente, odiosamente violento.
Niente sarà più come prima, dicono adesso. Ma suona più come una minaccia che come un programma di interventi economici. E d’altronde, quali mai «misure» è possibile adoperare – se non ripescando vecchie formule e esperienze – in un mondo, in un tempo che ha a portata di mano nuove forme e nuove istituzioni del produrre e del vivere supportate da una straordinaria possibilità della scienza e della tecnica che rimettono in discussione i «fondamenti» del nostro esserci? Tutto è vecchio, mostruosamente vecchio, quando occorrerebbero invece coraggio, determinazione, immaginazione.
Un neo-statalismo, nella forma di un keynesismo revisionato o di un protezionismo a passo ridotto o di formule combinate all’interno di alleanze fra Stati, sembra la ricetta più comune. Eppure, non possono esistere «piani» nazionali in grado di superare la crisi, i cui contorni sono per natura sovranazionali. Esiste, però, un plusvalore «politico» della crisi che può essere gestito localmente: un «profitto politico» caduto dal cielo. A questo si aggrappano i governi nazionali e le amministrazioni locali. Per imbonirci e tenerci buoni, agendo sui nostri lati peggiori. Mobilitazione ideologica – richiami a valori e bandiere, a patrie e nazioni, a tradizioni e religioni – e risibili provvedimenti economici andranno di pari passo. La crisi è tutta sulle nostre spalle. Il mondo è tutto sulle nostre spalle.
Bene, azzeriamo tutto allora. Default. Ma ai nastri di partenza di questa nuova corsa non ci stanno solo loro. Ci siamo pure noi. Noi e la nostra ricchezza. Noi e la nostra potenza.

La politica ci salverà?
Quelli che ci hanno mandati a ramengo nella crisi, quelli che dovevano controllare, vigilare, stare attenti, quelli che insomma dovevano fare il loro mestiere – il mestiere per cui li abbiamo votati e delegati, e per cui li paghiamo, cioè: governare – e che se ne sono bellamente strafottuti, per intrallazzo, per ambizione, per totale ignoranza e incompetenza, sono gli stessi che adesso fanno i sapientoni e vogliono salvarci: loro, i politici, gli amministratori, i cortigiani del Palazzo. Qualcosa non torna.
Qualcosa proprio non torna se chi prima ci lascia affondare e dopo ci lancia una ciambella di salvataggio ha la stessa faccia. Qualcosa proprio non torna se tutto ciò che loro hanno messo assieme di provvedimenti sono: fede e speranza. Mentre noi stiamo a capo chino e col cappello in mano e preghiamo e li ringraziamo devoti, timorosi di Dio e intimiditi dall’apocalisse che verrà, loro intanto che fanno?
Nella crisi, loro non sono la soluzione del problema, sono parte del problema. È il loro sistema che va a pezzi, non il nostro. Sono le loro regole che non hanno funzionato, non le nostre. Sono le loro istituzioni che non hanno governato, non le nostre. E adesso vogliono che gli diamo una mano? Anzi, ci chiedono sforzi e sacrifici, solidarietà e rinunce, pazienza e sopportazione, fiducia e serenità. Loro ci chiedono di essere virtuosi. Ci chiedono i nostri soldi – quelli che abbiamo e quelli che ci devono –, tanto, loro pagano tutto coi nostri soldi: siamo il loro bancomat, la loro carta di credito illimitata. E noi dovremmo spendere la nostra ricchezza per loro, dovremmo investire tutto ciò che abbiamo su di loro, dovremmo puntare sulla scommessa che loro rappresentano? Scusate, eh, ma andarsene affanculo, no?
Dice: ma la crisi è globale, sono gli americani, sono i tedeschi, sono i francesi, pure i cinesi so’ – che potevano fare? Ma come, loro ci hanno fatta una testa così con la globalizzazione, e il mercato di qua e il mercato di là, che era un mondo tutto latte e miele, e mo’ vengono a dirci che quello era l’inferno? Oggi dicono il contrario di ieri, ieri dicevano il contrario di oggi, domani chissà che diranno, quello che importa è che loro restino lì dove sono a dirci sempre qual è la cosa giusta. Scusate, eh, ma un po’ di pudore, niente? Tutto quello che propongono è un revival di autarchia – «consumate italiano» – e una nuova austerity, tutto quello che loro sanno dire adesso è che gl’Americani so’ troppo forti, yogurt, marmelata, però, forse è meglio che se magnamo du’ maccaroni? Ma davvero credono che siamo tanto fessi da berci qualsiasi frottola ci raccontino?
Si è aperta una transizione al futuro, dentro il tramonto di questo tempo. Una transizione che non sarà indolore e vedrà conflitti e tumulti. In ogni luogo, in ogni territorio, in ogni città. Qui. In questa città. Governare questo tempo non è pane per i loro denti.

Che se ne vadano via
Noi siamo la ricchezza di questa città. Roma è ricca della nostra ricchezza, del nostro talento, della nostra creatività, della nostra capacità di inventare e produrre, dei nostri desideri, delle nostre curiosità, della nostra speciale qualità di costruire relazioni, della nostra voglia di vivere meglio, della nostra ricerca di felicità. Ciascuno a modo suo e per quel che può e sa fare. Questo luogo ci appartiene, questa città ci appartiene. Questa città è la nostra città. Ci lavoriamo da tempo, investendoci i nostri saperi e i nostri mestieri, nel pubblico e nel privato. Questa città ha smesso d’essere provinciale e succube d’Oltretevere con la fine del lungo potere democristiano, con la grande ondata di chi aveva vissuto le trasformazioni e le speranze dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta e progressivamente entrava nelle professioni, nei mestieri, nel commercio, negli impieghi, portando culture e innovazioni, lingue e circolazione di idee, sguardi e visioni, portando una enorme capacità di cooperazione e relazione sociali, facendo tanto col poco, valorizzando la «fortuna» di trovarsi dove c’è il più grande patrimonio dell’umanità, valorizzando quella straordinaria risorsa collettiva che è Roma. Inventandone «forme d’uso» che ne riscoprissero la storia – il senso e la bellezza dei suoi spazi – ma fossero pure quotidiane, «facili», quasi sovrappensiero. Tutti quelli che si sono succeduti al governo di Roma non hanno fatto altro che mettere a profitto questa capacità, appropriarsene. Come oggi si appropriano del lavoro di quei produttori di immaginario e di cultura che in questi anni sono nati e cresciuti a Roma – di certo non grazie all’auditorium e alla festa del cinema di Veltroni e Bettini, ereditati e corretti da Alemanno e Croppi – e che fa cinema, video, teatro, musica, pubblicità, libri, produce cose per un buon vivere.
È tempo di dichiarare la nostra indipendenza. È tempo di governarci da soli: qualsiasi badante sarà più capace e avrà più cura nel governare, nell’amministrare, di loro.
Sono loro la crisi, è il loro sistema la crisi della nostra ricchezza. Sono loro il «male assoluto»: il loro sistema fiscale, il loro sistema creditizio, il loro sistema legislativo, il loro sistema distributivo. Sono un freno alla nostra capacità di produrre, alla nostra possibilità di creare, inventare. Davvero, non ne possiamo più: amministrano i nostri soldi e ce li lesinano e li sperperano, gli abbiamo affidato i nostri beni – la nostra storia, la nostra memoria, le nostre bellezze, la nostra cultura, i nostri immobili – e se li accaparrano, li trascurano o ne fanno scempio, non sanno provvedere ai bisogni minimi quotidiani della città come alle situazioni eccezionali d’emergenza. Loro, i politici, coi preti, i banchieri e gli immobiliaristi.
Questa città va diventando un luogo qualunque, una città-cartolina, una città-presepe, una città-depliant. Una città mediocre. Un luogo indistinto, una metropoli che somiglia a tutte le altre, che si consuma come tutte le altre, dove non c’è relazione alcuna fra la storia e l’adesso, fra ciò che siamo stati e ciò che siamo. È svuotata di se stessa, è la copia di se stessa, qualcosa che può star bene a Las Vegas o Disneyland. Un luogo sciatto e blindato nello stesso tempo, sciatto per noi e blindato per loro.
Dentro la loro crisi, per noi si prospettano ulteriore precarietà dei lavori, compressione dei salari, assenza di tutele e garanzie sociali; per loro, varrebbe il tassativo ordine di «non disturbare il manovratore». La loro formula di uscita dalla crisi, di ricostruzione della legge del profitto ha un solo ingrediente: ridurre il lavoro a forme di servitù.
Ecco, onorevoli politici e amministratori dei nostri stivali, vi diamo questa notizia: siete arrivati al capolinea, è tempo di scendere. Non sapete fare il vostro mestiere, e il vostro mestiere siamo stati noi. La città sovrana vi revoca il mandato, noi vi licenziamo.
Voi politici siete inquilini morosi, siete abusivi. State occupando abusivamente il nostro centro, casa nostra, i nostri «palazzi». Se i vigili urbani di questa città fossero meno impegnati a rompere i coglioni agli ambulanti e ai rom o a prendere bustarelle e a darsi malati, e lavorassero un po’, dovrebbero venire lì a Montecitorio, a Palazzo Chigi, al Campidoglio, sulla Colombo, a sfrattarvi, a mettere i sigilli con l’ufficiale giudiziario dovrebbero.
Voi politici avete fatto del centro di Roma un luogo vostro, deturpandolo, facendo pagare a noi il doppio peso doppiamente odioso del potere nazionale e del potere locale. Vi siete proprio allargati, con i vostri uffici, le vostre segreterie, le vostre biblioteche, le vostre scorte, le vostre foresterie e le vostre garçonnieres. Scorrazzate per la città con le vostre auto blu. È tempo che vi leviate di torno, che ci restituiate i nostri spazi. Saremo generosi: andatevene via, oltre il raccordo anulare, andatevene in un Cpt, un Centro di politici temporaneo tutto per voi. Potrete giocare a Destra, Centro e Sinistra quanto vi pare, a noi ci ha già stufato da un pezzo. Almeno non state tra i piedi, non date troppo fastidio e già è una cosa.

Io sono mia
È tempo di dichiarare la nostra indipendenza. Se c’è davvero una cosa che questa crisi mostra con ogni evidenza è che interventi economici «impensabili» – il denaro a costo zero, le ore di lavoro decurtate della metà a uguale salario – sono già possibili da tempo. Se c’è davvero una cosa che questa crisi mostra con ogni evidenza è che viviamo al di sotto delle nostre possibilità, e non al di sopra come vorrebbero convincerci – «Si è scialacquato troppo», dicono – per continuare a mortificarci. Riformisti e conservatori parlano con la stessa voce fessa. Tutt’al contrario, noi vogliamo tanto e di tutto. Vogliamo inventare, produrre, scambiare e consumare. Vogliamo desiderare. Quelli che sono privilegi di pochi – una vita confortevole e sicura, ricca di piaceri e bellezze – potrebbero essere occasioni di ciascuno. Le possibilità materiali ci sono ormai tutte, di soddisfare ogni necessità. Invece, siamo in una società economicamente depressa che non ce la fa a risollevarsi a forza di gag e spiritosaggini.
Ma viviamo al di sotto delle nostre libertà. Il tempo della illimitata produzione di massa è finito, il tempo della illimitata disponibilità al consumo è finito. Era il tempo dei mezzi e delle macchine, e della fatica dell’uomo. È finito pure il tempo della illimitata propensione alla delega politica. Era il tempo dei totalitarismi e della democrazia. È il tramonto d’una civiltà, non solo d’un sistema, una civiltà che ha fatto del lavoro e della produzione la sua potenza e la sua egemonia, e che su lavoro e produzione ha ormai perso il primato. Succede nella Storia. Si va avanti. Eppure, è nella politica la nostra grande storia e tradizione, nell’invenzione della politica, dei diritti, delle libertà. Nell’invenzione della rivoluzione politica. È questo che la nostra storia ha dato al mondo. È questo che possiamo ancora dare al mondo. È la nostra vera «eccellenza». La nostra politica.
La rivoluzione che verrà sarà giovane e repubblicana. La repubblica che verrà, sarà autonoma, libera e indipendente. Sarà romana. Vivrà della capacità di decisione e di espressione di ciascuno. La democrazia rappresentativa, che pure ha avuto una funzione e un’importanza straordinarie, è ormai un involucro vuoto. Poggiava su una relazione fra lavoro e cittadinanza che non si dà più nelle forme del Novecento. Non si può ripristinare o rifondare, lo sa bene la Reazione: le derive populiste, le piccole patrie irrompono e governano in Europa. Colmano quel vuoto in modo orribile, portano le lancette della storia all’indietro. Possono pure vincere brevemente, ma non reggeranno.
Noi, quel vuoto vogliamo colmarlo di nuove virtù repubblicane, di nuove compassioni, di nuove libertà, di nuove felicità, di nuove istituzioni.
Vogliamo rendere a Roma l’onore della sua storia, della sua storia politica, della sua sovranità. Perché sia modo di una nuova cittadinanza nel mondo.

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Io non ho paura


Tutta la paura del mondo
Le città del mondo hanno paura. Delle cose che gli uomini hanno costruito nel tempo, delle loro metropolitane e dei loro grattacieli, dei loro autobus e dei loro aerei, delle loro periferie e dei loro centri. Gli si rivoltano contro. Hanno paura delle cose che gli sono state donate, dei loro fiumi e dei loro venti. Gli si rivoltano contro. Hanno paura dei loro uomini. Delle loro fogge e dei loro modi, delle loro preghiere e delle loro bestemmie, dei loro corpi svelati e dei loro veli. Gli si rivoltano contro.
Le città del mondo scoppiano. Di rabbia e di furore, di bombe e di speranza, di bellezza e di felicità, di lingue e di rumori, di luci e di ombre. Scoppiano della loro ricchezza e della loro povertà, dei loro angeli e dei loro demoni, della loro storia e del loro futuro, delle loro possibilità e della loro impotenza.
Roma non ha paura.
Roma è stata costruita perché la paura restasse fuori le sue mura. Qui fosse lo spazio della retorica e della politica, degli dei e degli avi, degli agi e della legge. Lo spazio dei tumulti e dei tribuni, dei conflitti e delle istituzioni del popolo. Qui lo spazio pubblico era sacro. Nei secoli ha sentito la paura, più volte. Più eserciti l’hanno attraversata, per difenderla o conquistarla. Più piaghe l’hanno sfinita. Come per ogni altra cosa, abbiamo visto tutto e il suo contrario. Eppure, Roma è ancora qui. A patrimonio dell’umanità. È il suo racconto.
Roma non è una città impaurita. Pure, la paura ora vive tra noi, abita la porta accanto. Una città impaurita è una città infelice. Si guarda circospetta intorno, fruga ansiosa nelle tasche e nei cuori, mette ai ceppi i suoi uomini o li costringe alla fuga, maledice il mondo. Roma non è così. Roma non è una città infelice.

La misticanza fa bene
Questa città smotta, slitta, si rimescola in continua mobilità. Scoppia di salute e va crescendo. Una volta, la città era più ingessata, gli osti abruzzesi stavano a est e i muratori calabresi stavano a sud, gli studenti stavano intorno la città universitaria e gli impiegati stavano non lontano dai ministeri. Trasferirsi da Centocelle all’Appio era segno di mobilità sociale, di uno status migliore. Oggi, spostarsi a Tor Pignattara può capitare a chiunque, anche arrivandoci dal centro storico. Oggi, la vita non è più diritta e non va sempre in ascesa. Sentiamo di smarrire un’identità sicura, ma così gira il mondo. I bengalesi stanno stipati a san Giovanni come a Tor Bella Monaca, a Morena ci vivono giovani coppie romane e rumene, le une e le altre per pagare di meno un affitto, da Castelnuovo di Porto e Campagnano sono andati via i romani schizzinosi del casino della città e sono arrivati gli eritrei per i quali la città costa troppo, al mercato di Campo dei Fiori si parlano tutti gli accenti del mondo fra stranieri che fanno la spesa per i loro padroni e stranieri che vendono frutta e verdura per i loro padroni. La città non la disegnano gli immobiliaristi, loro costruiscono valore sui nostri bisogni e desideri. Noi mettiamo su casa, loro ci fanno «proprietari». Da «proprietari», ora che abbiamo un «valore», non vogliamo che tra i nostri vicini abitino immigrati e gente poco dabbene, che ne abbassano il prezzo. Come se potessimo contare qualcosa nell’andamento delle bolle speculative degli gnomi finanziari che fanno andare su e giù i nostri mutui e i nostri «beni». Loro, gli immigrati, portano fatica e sudore, fanno le cose che non sappiamo, che non possiamo, che non vogliamo fare più. Loro sono il segno del nostro benessere acquisito. Loro sono i nostri «macheroni», i loro figli siedono nei banchi di scuola accanto ai nostri, le loro donne fanno la spesa al mercato accanto le nostre. E Roma non può costruire tante Brucculino, non è New York; Roma non può costruire tante Palermo vieja, non è Buenos Aires. Separare in ghetti questa città è contro la sua vitalità. È contro la sua storia; per l’unico che abbiamo avuto, quello ebraico, dovremmo portarne ancora vergogna e dolore. La misticanza invece è buona e fa bene. Chi ama Roma lo sa. E sa caparla.
Va bene, qui arriva anche la feccia. E facciamogli il culo a sta feccia, a quelli che vengono qui per per rubare nelle nostre case e toccare le nostre donne. Tiriamo fuori le palle e facciamogli vedere di che pasta siamo. Se loro vengono col coltello, noi andremo con la pistola; e se loro vengono con la pistola, noi andremo col fucile. Ma se vengono col fucile, con cosa andremo noi, con il cannone? È questa l’idea?
Dieci anni di tolleranza zero a New York non hanno impedito che le torri venissero giù. Mentre Giuliani faceva il sindaco dalla faccia feroce, i nemici dell’America si preparavano all’attacco. Sotto il suo naso. Le jene, gli orchi, i nemici rovistano tra le nostre libertà, sciacallano tra i nostri beni. Dovremmo rinunciare alla nostra vita, per tacitare la loro? E, ammesso, funziona? E quanto costa?
Il generale dei carabinieri Mori è stato nominato dal sindaco capo della sicurezza. Dichiara subito: rastrelleremo. Ma in vent’anni in Sicilia, mentre lui rastrellava Palermo e le campagne intorno, Riina non si muoveva dalla sua Corleone, sotto il suo naso. E faceva fior di danni. Non è il dispiegamento delle scorte che ferma i nemici.
Non fu la scorta a salvare Moro a via Fani. E per cinquantacinque giorni, militari e poliziotti pattugliarono ogni angolo di strada, entrarono in ogni casa, perquisirono ovunque, ma non cavarono un ragno dal buco. Moro, lo trovarono morto nel cuore della città, sotto il loro naso. Non è il dispiegamento dell’esercito e la rinuncia alle libertà che salva le vite. Che ci salva.
Hanno mandato dei ragazzi vestiti da soldato a pattugliare incroci. Jeep e soldati come fossero strade di Baghdad. È la «guerra preventiva». Qualcuno ha dichiarato guerra ai cittadini di Roma. E le oche, come le lucciole di Pasolini, sono scomparse: non schiamazzano più per avvisarci.
Soffiare sul fuoco del senso di insicurezza e di paura è pericoloso. Alla fine, quelli che plaudono a stivali e tute mimetiche penseranno che sia l’ora di fare da sé, e si sentiranno autorizzati a comprare una pistola e tenerla a portata di mano, per stare più tranquilli. E se ogni faccia sconosciuta è un potenziale nemico, se chi bussa alla mia porta ha l’intenzione di fregarmi, se ognuno che entra nel mio negozio potrebbe rapinarmi, troveranno pane per i loro denti. Aspettiamo che muoia un altro Re Cecconi, per uno scherzo a un amico, per capire in che follia ci stiamo infilando?
I ricchi americani si costruiscono le loro panic room, in cui infilarsi quando la percezione della paura diventa alta: muri spessi, allarmi, viveri di sopravvivenza, telecamere di sorveglianza, luci, armi. Per salvarci, dovremo stare rintanati nelle nostre case. Oppure cacciare via tutti, rendere la città blindata come fosse la nostra casa blindata. Se alimentiamo le nostre paure Roma tutta può diventare una panic city. Ce lo possiamo permettere? Noi ci campiamo con l’essere una città aperta a tutto il mondo.
Chi è ricco e può permetterselo fa del proprio quartiere una zona ad alta sorveglianza, con il suo esercito privato. Che gli altri si scannino lo riguarda poco: quello che teme è che la paura possa lambire il suo giardino ben curato, possa increspare l'acqua della sua piscina. Ma Alberica Filo della Torre, una donna ricca e privilegiata, è morta in modo orribile come Simonetta Cesaroni, una ragazza qualunque che lavorava sodo.

Bande armate bipartisan
I padani leghisti sono quelli che strillano più di tutti per la sicurezza. Ma se i leghisti proprio ci tengono a fare di Bagnolo san Vito e Venegono Inferiore un modello di cittadine in sicurezza assoluta, che se lo facciano. Proveranno poi a spiegarsi da dove arrivano i loro orchi, perché nella tranquilla Cogne Anna Maria Franzoni massacra a zoccolate suo figlio, perché a Novi Ligure Erika e Omar pugnalano così ferocemente il loro stesso sangue, perché a Erba Olindo e Rosa infieriscono a martellate su un bambino, perché nella cascina di un ridente paesino, Leno, Desirée viene attirata, stuprata e uccisa da un branco di ragazzini guidato da un adulto, perché padre e figlio, in un passaggio di sangue, di suolo e di spranga, possano uccidere Abba, che ha rubato le merendine. Tutte le madri del mondo non sono come Anna Maria Franzoni, tutti i vicini di casa del mondo non sono come Olindo e Rosa. E tutti i rumeni del mondo non escono come Mailat dal fondo dell’oscurità per rapinare, violentare e uccidere a una fermata della metro a Roma una donna che torna a casa dal lavoro. Ma i leghisti vogliono cacciare via tutti quelli che non hanno sangue celtico. Bene, ce li prendiamo noi meridionali e immigrati: noi abbiamo bisogno di voglia di fare e di talenti, di competenze e di storie. Che i padani continuino a fare polemica con Federico Barbarossa e Garibaldi, e vadano a farsi fottere. Abbiamo altro cui pensare, problemi «un attimino» più complicati di Chignolo Po e Ponte di Legno. Noi siamo Roma, metropoli del mondo.
Di turismo Roma ci campa, di quello religioso e di quello archeologico, di quello di massa e di quello dei vip, di quelli che comprano solo una mezza acqua minerale e di quelli che prenotano le suite del De Russie o dell’Excelsior. Comunque, tutti acquistano qualcosa: una paccottiglia a Fontana di Trevi o un gioiello da Bulgari. Ci portano soldi freschi, ci danno da lavorare: noi ci sobbarchiamo lo sfinimento del loro peregrinare o della loro cafonaggine, loro si ciucciano il nostro caos e la nostra maleducata indolenza. Lo scambio è equo e solidale. Ma chi è ossessionato dal «decoro» di una città-museo da ripulire delle sue «brutture umane» – barboni, lavavetri, zingari, prostitute – e da far visitare a frotte di turisti disciplinarmente intruppati dietro la loro guida con l’ombrellino, immagina un’altra Roma, una Roma company town del turismo, e intorno questa idea vuole conformare le nostre vite. Il decoro e la pubblica decenza sembrano le uniche politiche capaci di diventare bipartisan. Rutelli ripuliva dai barboni le scalinate delle chiese dove chiedevano l’elemosina, per fare un piacere al papa durante il Giubileo; Veltroni scarrozzava i rom il più lontano possibile dagli occhi e dal cuore. Alemanno misura la lunghezza delle gonne sulla Salaria e l’Olimpica. È la nostra sharia, il peccato diventa reato, facendoci vergognare. Ai bipartisan decorativi interessano solo garbati turisti incolonnati per un rapido sightseeing su un autobus a due piani, e vomitati in un qualche ristorante con cui ci si è messi d’accordo e noi a fare ciao con la manina, educati. Non come i cicloturisti olandesi che si muovono per conto proprio e si fermano dove capita, perché allora «te la vai cercando». Se vengono gli hooligans, per dire, invece li massacriamo subito di botte, come è accaduto all’Olimpico – per sicurezza, per fargli capire come stanno le cose. Loro, i turisti, devono stare con due piedi in una scarpa, noi simpatici e sorridenti, col manganello dietro la schiena.

Siate poveri ma sicuri
La sicurezza è la fiaba che raccontano per farci accontentare, per non farci desiderare, per controllarci. Dovremo essere poveri, i tempi sono questi. Però, saremo sicuri. Siate poveri ma sicuri. È la favola del fascismo, di quando si stava bene quando si stava peggio. Gli orchi però c'erano anche allora. Mussolini imbavagliò i giornali quando a Roma le bambine venivano rapite e stuprate. Poi presero uno che non c'entrava nulla, Girolimoni, ma avere un colpevole fece credere che si potesse stare sicuri. Gli orchi ci sono sempre. Gli orchi non li inventano i giornali ma i giornali – ora che la stampa è «libera e indipendente» – ci sguazzano coi nostri sentimenti e le nostre angosce.
Pensiero religioso e pensiero economico ci vanno a burro e alici con quest'idea della mortificazione e della rinuncia al piacere. Non abbiate troppe ambizioni, non desiderate troppo, non amate troppo, non fatevi troppi amici. D'altronde, ai poveri è destinato il regno dei cieli. L'uomo racconta storie. La crisi economica è una storia. Una narrazione per intimorirci raggruppandoci intorno l'albero degli zoccoli. Attenti all'uomo nero, non andate nel bosco, state alla larga dalla casa di pandizucchero. Ma nelle fiabe gli orchi hanno artigli reali e non sempre c’è il lieto fine. Dentro la crisi si nasconde lo spostamento di ricchezza più gigantesco dal dopoguerra, chi già ha tanto di più avrà, e ognuno rimanga al posto suo. State alla larga dalla casa di pandizucchero.
Le statistiche dicono che i soggetti sociali che maggiormente avvertono la percezione del rischio sono quelli che in generale meno restano vittime: le donne e gli anziani. Perché per proteggersi adottano comportamenti che riducono il rischio: vivono la città solo in certe ore, frequentano solo specifici posti e determinate persone. Fissano la loro vita in consolidate abitudini. In percorsi obbligati. Fuori dalle tracce sicure, ci sono gli orchi. Gli orchi siamo tutti noi.
Qualcuno tiene il conto di quanti maritini e fidanzatini hanno massacrato le loro compagne in questi mesi? L’estraneo ha spesso le chiavi di casa, non viene dal buio, ma dal salotto. Respirando la paura, l’anima si devasta: stiamo avendo paura del diverso per razza e colore, ma i ragazzi gay, le lesbiche o le transessuali aggrediti e sfregiati sono il più delle volte romane e romani. Alla fine, l’altro, l’estraneo, quello che mi disturba diventa l’alieno invasore pure se mangia bucatini all’amatriciana da quando campa. Oramai qualsiasi diversità fa scattare le sirene di massimo allarme.
Una città impaurita è una città infelice. La sicurezza – dicono – è il presupposto della città. Ma una città sicura non vuol dire una città felice – se è una città di merda, rimane una città di merda – e noi vogliamo vivere una città felice. Gli altri sono il presupposto di una città felice. Una città è la vita con gli altri, la vita degli altri. Senza gli altri non c'è città, non c'è felicità. La paura è diventata la forma di socializzazione della nostra solitudine. Timorosa o belluina. Rintanata e muta, o aggregata in ronde e squadre di lame e sangue, e berciante. Questa non è Roma.

La felicità di una repubblica tumultuosa
In un mondo attraversato dalla paura voler essere felici sembra una dichiarazione di follia. Ma il contrario della paura non è il coraggio, è il desiderio. Forse la sicurezza a cui non vogliamo rinunciare è questa qui: le possibilità del mondo. Forse il mondo che immaginiamo privo di paura è un mondo di occasioni. Di innovazioni, di rischi e di conoscenza. Di conflitti. Ho paura se non posso scegliere. Se non posso decidere della vita. Se non posso capire. Conoscere. Spostarmi. Cambiarmi. Incontrare. Amare. Condividere. Divenire. Battermi. Allora ho paura. Ho paura dei miei custodi.
Forse, possiamo ora desiderare una repubblica che non abbia per mito fondativo la paura.
Maneggiare le nostre paure. Contro chi inquina e deturpa i nostri territori, ne fa discarica o li gassifica, ci si è ribellati. Agli studi di fattibilità, ai diagrammi tranquillanti abbiamo sempre opposto l’insicurezza per un futuro «sicuro» troppo lontano dalle nostre vite quotidiane e il timore che finisca per cancellarne i modi e il senso. Abbiamo paura della fine del nostro mondo, che è tutto il mondo che conosciamo bene, dove abbiamo casa. Che è come avere paura della fine del mondo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, la guerra fredda fra blocchi militari e imperiali, quello americano e quello sovietico, minacciava la fine del mondo, lo scontro fra testate nucleari. Oggi sembra tornare l’incubo di quella guerra, ora già eserciti, simmetrici e asimmetrici, si fronteggiano. Non riusciremo a tenerli lontani dalle nostre mura, forse dovremo uscire loro incontro per fermarli di nuovo. Vogliamo batterci tra le nostre mura, per fermarli di nuovo.
Vogliamo andare incontro al cammino dei migranti, ai loro piedi nomadi, che qui cercano riposo e vogliono a tutti i costi la loro città. Hanno già capito la cosa essenziale, lottare con le unghie e con i denti: sono nostri concittadini dovunque essi siano.
Vogliamo andare incontro a chi riveste di sogni qualunque richiesta elementare di diritto, di reddito, di casa, di garanzie e di certezze, a chi crede che il desiderio d’una vita degna e felice possa forzare l’ordine delle cose e del potere.
Il tumulto è il cuore della nostra repubblica: per batterci, dovranno cospargere di sale Roma, dopo averla rasa al suolo. Noi siamo qui, non abbiamo paura.

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Non è un paese per orfani


Il foglio che state leggendo è frutto di un lavoro collettivo che tiene assieme gruppi e singoli, attivisti ed editori, giornalisti e scrittori, lavoratori della cultura in genere. È un esperimento che tenta di pensare in comune la fine della rappresentanza politica e le mutazioni del presente. Parla di Roma, e dentro Roma vuole costruire la sua continuità. Un progetto che rivendica per sé parzialità e spregiudicatezza: nulla può essere pensato senza uno spirito di parte; nulla può essere scritto senza tentare di mettere in crisi il senso comune.
Un foglio che si rivolge a chi dentro Roma non si sente sconfitto e guarda con voglia di sperimentare la scena emersa dopo lo sconquasso elettorale. Un luogo di incontro, attraverso la scrittura, di pensieri e di pratiche di discorso che provano a capire cosa è davvero cambiato, cosa funziona malamente nell’esperienza politica e dei movimenti, cosa gira a vuoto, ma anche l’estensione e l’intensificazione di nuovi campi di conflitto.

Che è stato?
Come è potuto accadere che il laboratorio Roma, quel modello di governo della città messo in piedi da Veltroni, che nei sondaggi riceveva percentuali bulgare di sostegno e approvazione tanto da rendere ritrosi i possibili candidati del centro-destra a presentarsi, sicuri di una sonora sconfitta, come è potuto accadere che quel modello sia crollato nel breve volgere di una tornata elettorale?
Ammettiamo pure che quanto accaduto sia il risultato di un complesso di cause: l’avanzata baldanzosa del centro-destra in tutt’Italia con un effetto di trascinamento, il pedaggio pagato alle intenzioni e ai risultati disastrosi del governo Prodi, il «sacrificio» di Veltroni al compito di segretario del Pd e l’inadeguatezza di quel riverente baciapile di Rutelli – percepito come una automobile logora, buona per la rottamazione – a suscitare un supplemento di simpatia e passione, l’esplodere di eventi drammatici legati alla questione sicurezza, cavalcati dal centro-destra contro l’eccesso di «tolleranza e buonismo» precedenti e rispetto ai quali si presentava invece come fautore di «ordine e legalità» da instaurare muscolarmente, la disaffezione di un’area non minuscola di opinione radicale che ha insistito nell’astensionismo, e persino un possibile “suicidio” interno al centro-sinistra, tra le sue correnti, che ha premiato il candidato alla provincia e penalizzato il candidato a sindaco. Ammettiamo pure tutto questo, e forse altro ancora: resta tuttavia l’incontrovertibile dato che l’unicità di Roma – addirittura sbandierata come possibile trincea a fronte della marcia inarrestabile della destra, la leva di un rilancio – si è rovesciata nel suo opposto: avere conquistato Roma è stato, per la destra, un passaggio storico simbolico, lo sdoganamento definitivo. È da Roma, peraltro, che iniziò la discesa in campo di Berlusconi, quando dichiarò, nella corsa a sindaco di allora, la sua preferenza per Fini. Un suggello, quindi: di più, molto di più, della precedente conquista di Bologna la rossa per mano di Guazzaloca, che tanta curiosità e meraviglia suscitò nella stampa internazionale. Bologna era ed è impiantata in una dimensione “emiliana”, così come Milano è, ormai da anni, tutta radicata in una dimensione “lombarda”; e Venezia sta a specchio e contrasto del Nord-est e Napoli e Palermo sono «così meridionali». Solo Roma non è regionalizzata, semmai spadroneggia sulla sua area regionale. Solo Roma, per estensione e numeri, problemi, ruolo, storia e attualità, racchiude una dimensione “italiana”. È l’unica metropoli di questo paese, magari controvoglia i suoi stessi abitanti e la sua forma urbis. Vivere qui è un privilegio e una fatica, una gioia quotidiana e una litania senza pausa di bestemmie: si paga già ogni giorno il ticket, solo per starci.

Il veltronismo: ciao core
Dove, in cosa non ha retto il veltronismo? È proprio vero che il suo punto di crisi e rottura risieda nella spettacolarizzazione delle iniziative e degli eventi a scapito della concreta materialità dei servizi alle periferie, delle buche mai colmate, dei trasporti incasinati, insomma della normale amministrazione di una città? Una città che si sarebbe sentita abbandonata, che avrebbe vissuto il progressivo degrado dei luoghi come deliberata trascuratezza di un’amministrazione colpevole d’essere tutta concentrata su lustrini e paillettes. Eppure, quel modello di città-spettacolo sembrava funzionare: le notti bianche sono state attraversate da milioni di persone e riprodotte dappertutto in Italia, da Ragusa a Salerno a Pordenone – forse davvero l’unico modello esportato; la Festa del cinema, tappeti rossi per le star, una competition con Venezia, flash a go-go, conferenze-stampa e tanti autografi, era un visibilio; Paul McCartney, Elton John e Simon & Garfunkel avevano adunato oceaniche folle con fiammelle di accendini e cuoricini luminosi intorno al Colosseo e giù per i Fori; i Capodanni a piazza del Popolo coi zumpappà della Mannoia e De Gregori erano un tripudio di fischietti e cotillons. E il Pil che correva come nessun altro, e il gettito fiscale che aumentava, e il boom dei turisti, e la dinamicità di nuove imprese, e l’occupazione che cresceva e i progetti di mobilità urbana? Tutto dimenticato? Si può essere così ingrati? È questo il punto?
Magari il punto è che il lato oscuro della brillantezza performativa di Roma poggiava sulla privatizzazione d’ogni servizio, su una precarizzazione spaventosa del lavoro, dei redditi, della qualità della vita e che qualsiasi spettacolo – ancorché agratisse – dura quel che dura ma poi si torna alla quotidianità e ci fai poco coi zumpappà e le immagini della tua star sul cellulare. Magari il costo della vita sta diventando insopportabile, le rate falcidiano i redditi, le cambiali non bastano a comprare schermi al plasma pure che te li tirano dietro senza interessi ai centri commerciali o li cominci a pagare nel 2012, ma neppure le mozzarelle e gli affettati. Magari non basta più farsi ancora il culo sul lavoro o depennare qualche spesuccia o arrangiarsi, fare qualche traffico o mettere in piedi qualche business piccolo piccolo, vivere ai limiti dell’illegalità. Magari l’impoverimento collettivo non è solo di cose, ma è di relazioni, di rapporti, di sicurezze, di speranze, di identità.
Magari il punto è che questa messa in scena di città è piccina e provinciale, che chi gira un po’ per l’Europa si accorge di quanto avanti siano Berlino, Parigi, Barcellona, i cui musei rimangono aperti giorno e notte, le cui biblioteche sono sempre frequentabili, i cui teatri allestiscono spettacoli importanti, in cui le facilitazioni per i turisti e i giovani e i cittadini sono sostanziose e significative, in cui la mobilità è un sollievo e non una iattura, la cui vita culturale, sociale, relazionale è ricca, aperta al confronto internazionale, cosmopolita, metropolitana. Magari altrove le università sono preziose eccellenze, di formazione e di cultura, di ricerca e di innovazione, di attrazione e di espansività, a cui si appartiene con orgoglio e non con senso di vergogna per l’abbandono e il degrado in cui tutto versa, luoghi e saperi, routine burocratiche e consuetudini docenti, tutto un «sapienziame» elaborato nei giochini di potere, di baronie, di sperperi e arraffamenti di denari pubblici e privati. Roma è rimasta «all’amatriciana», città di memorie antiche e di recenti rimpianti, metropoli mancata a dismisura d’uomo, lontana dai circuiti finanziari importanti, dai circuiti politici importanti, dai circuiti culturali importanti. Il modello veltroniano non ha fatto troppa “cultura”, ma, al contrario, troppo poca e un po’ melensa. È la rappresentazione politica di quel pastiche televisivo de «I Cesaroni», la messa in scena del “popolare” e del “democratico”: i menu etnici invece dei diritti agli immigrati. Veltroni è stato al di sotto delle necessità di questa città, di questa Roma, di questa metropoli, sia pure una metropoli impossibile e tutta da venire, da immaginare. Era troppo preso dalla collezione di figurine (rockstar, attori e attrici, presidenti dismessi: ce l’ho, ce l’ho, mi manca) e non dai processi di innovazione e sperimentazione. Gli unici luoghi di questa città dove si sono innescate dinamiche di apertura, contaminazione e respiro internazionali, sono stati luoghi ai margini, che hanno dovuto strappare sempre con le unghie e con i denti la propria legittimità e autorevolezza.
Né è bastata l’alleanza di potere con gli immobiliaristi e la rendita bancaria, il Piano Regolatore con la sistematizzazione dello spazio urbano – vecchio e nuovo, di una città che continua ad allargarsi – come unico «valore aggiunto», in una curiosa forma di neodemocrazia: una testa, un mutuo. Con il suo supplemento di cubature di cemento e l’incremento della speculazione finanziaria: al dunque, fiutata l’aria, quei signori hanno cambiato casacca, puntato su un altro cavallo. Il veltronismo non prevedeva la costruzione di una alleanza fra ceti sociali, classi, territori; piuttosto, la contrattazione fra poteri, la mediazione fra emergenze, il coinvolgimento delle rappresentanze politiche – la Sinistra democratica, Rifondazione, i Verdi, questo hanno fatto: qualche calcio negli stinchi –, una città spenta e paciosa, caciarona e un po’ volgare, romanesca e coatta, dove le contraddizioni, i conflitti venivano messi ai margini, fuori scena. La classe che di questa sceneggiatura economica era ed è vero motore produttivo – il precariato del lavoro materiale e immateriale – non è mai stato il soggetto sociale del veltronismo. Qualche mancia, ogni tanto: una scodella di grano può fare miracoli e tenere buona la plebe. Però, poi, le palle girano a mille, si diventa astiosi, alla prima occasione ci si vendica: pollice verso.

Mutande e pennacchi
Anche la stampella «caritatevole» di questa macchina amministrativa, il cattolicesimo solidarista, ne esce in crisi. Non si può contemperare offensiva ideologica reazionaria, dura, insistente, programmatica, autistica, lontana dalla mondanità, dalle modificazioni della vita, della scienza, delle tecnologie, della biologia, del genere, con un ruolo di riferimento sociale; non si può avere ruolo di riferimento sociale, attenzione ai deboli, alle nuove povertà e poi mostrarsi remissivi e complici coi poteri. Quanto siamo lontani, davvero, dalla condanna dei «mali di Roma» degli anni Settanta. È cambiato il potere temporale? O, piuttosto, è cambiato l’atteggiamento del potere “spirituale”? Bastano le piazze piene e le prediche urbe et orbi quando si hanno le parrocchie vuote? A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio: ovvero, lo stato fruga nelle mie tasche, la chiesa fruga nelle mie mutande. L’uno e l’altra mi spogliano: è questa la «nuda vita»?
Il sicuritarismo è una bufala. Tutto chiacchiere e distintivo. Il sicuritarismo, con la sua semplificazione delle cose, la sua riduzione a pochi, quando non a uno, dei problemi, provoca il caos dell’ingovernabilità. Una città complessa, una metropoli ha bisogno di risposte complesse, di una crescita complessa, di una moltiplicazione delle risposte di fronte alla moltiplicazione delle questioni. Basteranno quattro proclami e tre sceneggiate d’ordine di Alemanno a sistemare le cose? Basterà il rastrellamento dei rom, la trasformazione dei Cpt in galere per il solo reato di essere clandestino – qualcuno che andrebbe cioè protetto e aiutato da ciò da cui fugge –, il linciaggio mediatico di qualche trans, lo scatenamento di qualche testa rasata, la pistola alle guardie per strada, l’esercito a pattugliare consolari e circonvallazioni, per aumentare i nostri salari, i nostri redditi, per farci pagare le rate, per farci comprare più cose necessarie e no, per assicurarci casa e lavoro, per dare certezze ai figli, per pagare meno tasse, per avere più ricchezza, più abbondanza, più serenità? Ma che, davero davero? O piuttosto, aumentando e sovrapponendo le truppe, i poteri di polizia, locale e nazionale, non aumenteranno pure le discrezionalità al riparo dagli sguardi, le corruzioni piccole e grandi, le trattative coi poteri criminali forti – ma quelli “forti” davvero, le mafie nazionali e no, e non muschilli e cavalli di quart’ordine, nazionali e no – che stanno già qui e si spartiscono e controllano il territorio, e ne gestiscono, spesso, umori e tendenze? Intanto, gongolano gli stessi “imperatori” di prima, costruttori, immobiliaristi e banche, pronti al nuovo patto e ai nuovi affari: a loro, dei Rom, gliene po’ fregà de meno: mica sottoscrivono mutui per le case, i Rom.

La sòla dell’avvenire
La forma di economia che ha governato il mondo è andata in crisi. Il liberismo è in crisi, ovunque. È in questo passaggio che le contraddizioni sociali ed economiche accumulate esplodono, che i processi di fascistizzazione sociale emergono, che ritornano ammodernati egoismi sociali, razzismi etnici, disgregazione e aggressività, coatterie globali e periferiche. Tutto ciò ha poco di “ideologico” e non bastano le buone pedagogie. Tutto ciò è legato a processi di vita materiale. I neo-nazionalismi, le piccole, medie e grandi patrie (in Europa, ovunque, dalla Francia al Belgio, dalla Germania all’Albania) accompagnano le proposte di protezionismo economico, di nuovi dazi, di nuove dogane, di nuove autarchie, di nuovi federalismi regionali. La società, quanto aveva trovato forma economica e non solo nel welfare, è stata sfracellata dall’ondata del liberismo, la mano santa della privatizzazione d’ogni cosa – persino della guerra – e del mercato come panacea. Di quanto veniva curato, assistito e controllato nello scambio politica/lotta, la lealtà alla democrazia in cambio di un reddito sociale, di servizi e un pasto a gratis, nel «matrimonio combinato» tra lavoro e capitale dal battesimo al funerale passando per la scuola, la salute, la pensione, ne hanno fatto frattaglie e spezzatino. Ora è il liberismo a mostrare il fiato corto, a non essere in grado di governare più. E insieme, ora è il riformismo – sta forma di veltronismo senile – a stare alla canna del gas, vagheggiando progetti retro e melo – ah, i meravigliosi anni Sessanta –, a essere irrealistico, poco concreto, una cosa forse buona fra trent’anni quando saremo tutti morti. A seguire, come le vettovaglie, tutto quell’ambaradam di ong e terzo settore delegati a curare le differenze e le marginalità, e a mantenerle tali, relativismi culturali, che non possono somministrarci la loro minestra riscaldata come un «fare società». Ora, vengono avanti vessilli e teorie che si condensano intorno a un’idea “nazionale”, un’idea di sangue e di suolo, di «salute pubblica». Che sia quartiere, regione, impresa, macro-area territoriale, staterello. Destra e sinistra si appattano su questo, difendano i residenti, i nativi, i produttori, i consumatori, i lavoratori, i proletari, i cittadini. La difesa della razza e del territorio fa leva sulla paura, fa leva sull’aggressività, fa leva sulle questioni materiali. Quanto è «pubblico» oggi, istituzione pubblica, lavoro pubblico, servizio pubblico, «nazione proletaria», ha solo il carattere del ciarpame, del parassitismo. Dell’orrore. È il rovescio orribile di ciò che è «comune», la faccia rivoltata e rivoltante della cooperazione sociale, dell’autonomia degli individui, della ricchezza sociale, del livello alto e possibile e diffuso di capacità di produzione. Di vivere una buona vita.

Che sarà
Questo foglio intende contribuire e partecipare alla riflessione e al dibattito post-elettorale a Roma e alla continuità e ripresa delle battaglie e delle lotte politiche. Ci sembra che le più recenti iniziative, una maggiore disponibilità a rimettersi in gioco, a fare rete e ricchezza anche delle proprie specificità, dei propri territori, vadano in questo senso. Proveremo pure a darci continuità, a stampare altri fogli, ad allargare e infittire questioni, cose e persone. La destra al potere è una faccia della barbarie già in atto, l’altra, quella forse più feroce, sta in certi comportamenti sociali. Ci sembra pure non ci siano spazi per ammoine: la crisi della politica, che è sostanzialmente la crisi del riformismo del Novecento, si è consumata tutta. Ci restano, ed è tutto, processi di indipendenza economica, materiale, politica, culturale dentro la società, contro questa società. Ci resta un sapere generale e una capacità di autogoverno e produzione che sono mortificati e marginalizzati dai processi economici e democratici. È quello che oggi definiamo «comune», che già presiede le nostre singole vite, le nostre singolari identità e a cui quotidianamente attingiamo. È una tensione, un processo ma anche già vita materiale, comportamenti, attitudini, modi, stili, forme di vita. Qui e ora. Tra l’uno e l’altro, tra il comune e il pubblico, non c’è linea di mediazione possibile: o la potenza e la costituzione di un nuovo vivere sociale o la barbarie. O nuove istituzioni e nuove regole di convivenza e decisione o il regime d’ordine col consenso di maggioranza. O la potenza del «comune» diventa potere, capacità di dare forma ai pensieri e ai gesti del vivere sociale, o prevarrà l’accaparramento di ciascuno a scapito di qualcun altro. Roma, per la sua complessità, sarà emblematica. Noi qui stiamo. Nella «nostra» Repubblica.
Accorrete! Accorrete!

Scrivete a: repubblicaromana@gmail.com
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