martedì 20 gennaio 2009

Io non ho paura


Tutta la paura del mondo
Le città del mondo hanno paura. Delle cose che gli uomini hanno costruito nel tempo, delle loro metropolitane e dei loro grattacieli, dei loro autobus e dei loro aerei, delle loro periferie e dei loro centri. Gli si rivoltano contro. Hanno paura delle cose che gli sono state donate, dei loro fiumi e dei loro venti. Gli si rivoltano contro. Hanno paura dei loro uomini. Delle loro fogge e dei loro modi, delle loro preghiere e delle loro bestemmie, dei loro corpi svelati e dei loro veli. Gli si rivoltano contro.
Le città del mondo scoppiano. Di rabbia e di furore, di bombe e di speranza, di bellezza e di felicità, di lingue e di rumori, di luci e di ombre. Scoppiano della loro ricchezza e della loro povertà, dei loro angeli e dei loro demoni, della loro storia e del loro futuro, delle loro possibilità e della loro impotenza.
Roma non ha paura.
Roma è stata costruita perché la paura restasse fuori le sue mura. Qui fosse lo spazio della retorica e della politica, degli dei e degli avi, degli agi e della legge. Lo spazio dei tumulti e dei tribuni, dei conflitti e delle istituzioni del popolo. Qui lo spazio pubblico era sacro. Nei secoli ha sentito la paura, più volte. Più eserciti l’hanno attraversata, per difenderla o conquistarla. Più piaghe l’hanno sfinita. Come per ogni altra cosa, abbiamo visto tutto e il suo contrario. Eppure, Roma è ancora qui. A patrimonio dell’umanità. È il suo racconto.
Roma non è una città impaurita. Pure, la paura ora vive tra noi, abita la porta accanto. Una città impaurita è una città infelice. Si guarda circospetta intorno, fruga ansiosa nelle tasche e nei cuori, mette ai ceppi i suoi uomini o li costringe alla fuga, maledice il mondo. Roma non è così. Roma non è una città infelice.

La misticanza fa bene
Questa città smotta, slitta, si rimescola in continua mobilità. Scoppia di salute e va crescendo. Una volta, la città era più ingessata, gli osti abruzzesi stavano a est e i muratori calabresi stavano a sud, gli studenti stavano intorno la città universitaria e gli impiegati stavano non lontano dai ministeri. Trasferirsi da Centocelle all’Appio era segno di mobilità sociale, di uno status migliore. Oggi, spostarsi a Tor Pignattara può capitare a chiunque, anche arrivandoci dal centro storico. Oggi, la vita non è più diritta e non va sempre in ascesa. Sentiamo di smarrire un’identità sicura, ma così gira il mondo. I bengalesi stanno stipati a san Giovanni come a Tor Bella Monaca, a Morena ci vivono giovani coppie romane e rumene, le une e le altre per pagare di meno un affitto, da Castelnuovo di Porto e Campagnano sono andati via i romani schizzinosi del casino della città e sono arrivati gli eritrei per i quali la città costa troppo, al mercato di Campo dei Fiori si parlano tutti gli accenti del mondo fra stranieri che fanno la spesa per i loro padroni e stranieri che vendono frutta e verdura per i loro padroni. La città non la disegnano gli immobiliaristi, loro costruiscono valore sui nostri bisogni e desideri. Noi mettiamo su casa, loro ci fanno «proprietari». Da «proprietari», ora che abbiamo un «valore», non vogliamo che tra i nostri vicini abitino immigrati e gente poco dabbene, che ne abbassano il prezzo. Come se potessimo contare qualcosa nell’andamento delle bolle speculative degli gnomi finanziari che fanno andare su e giù i nostri mutui e i nostri «beni». Loro, gli immigrati, portano fatica e sudore, fanno le cose che non sappiamo, che non possiamo, che non vogliamo fare più. Loro sono il segno del nostro benessere acquisito. Loro sono i nostri «macheroni», i loro figli siedono nei banchi di scuola accanto ai nostri, le loro donne fanno la spesa al mercato accanto le nostre. E Roma non può costruire tante Brucculino, non è New York; Roma non può costruire tante Palermo vieja, non è Buenos Aires. Separare in ghetti questa città è contro la sua vitalità. È contro la sua storia; per l’unico che abbiamo avuto, quello ebraico, dovremmo portarne ancora vergogna e dolore. La misticanza invece è buona e fa bene. Chi ama Roma lo sa. E sa caparla.
Va bene, qui arriva anche la feccia. E facciamogli il culo a sta feccia, a quelli che vengono qui per per rubare nelle nostre case e toccare le nostre donne. Tiriamo fuori le palle e facciamogli vedere di che pasta siamo. Se loro vengono col coltello, noi andremo con la pistola; e se loro vengono con la pistola, noi andremo col fucile. Ma se vengono col fucile, con cosa andremo noi, con il cannone? È questa l’idea?
Dieci anni di tolleranza zero a New York non hanno impedito che le torri venissero giù. Mentre Giuliani faceva il sindaco dalla faccia feroce, i nemici dell’America si preparavano all’attacco. Sotto il suo naso. Le jene, gli orchi, i nemici rovistano tra le nostre libertà, sciacallano tra i nostri beni. Dovremmo rinunciare alla nostra vita, per tacitare la loro? E, ammesso, funziona? E quanto costa?
Il generale dei carabinieri Mori è stato nominato dal sindaco capo della sicurezza. Dichiara subito: rastrelleremo. Ma in vent’anni in Sicilia, mentre lui rastrellava Palermo e le campagne intorno, Riina non si muoveva dalla sua Corleone, sotto il suo naso. E faceva fior di danni. Non è il dispiegamento delle scorte che ferma i nemici.
Non fu la scorta a salvare Moro a via Fani. E per cinquantacinque giorni, militari e poliziotti pattugliarono ogni angolo di strada, entrarono in ogni casa, perquisirono ovunque, ma non cavarono un ragno dal buco. Moro, lo trovarono morto nel cuore della città, sotto il loro naso. Non è il dispiegamento dell’esercito e la rinuncia alle libertà che salva le vite. Che ci salva.
Hanno mandato dei ragazzi vestiti da soldato a pattugliare incroci. Jeep e soldati come fossero strade di Baghdad. È la «guerra preventiva». Qualcuno ha dichiarato guerra ai cittadini di Roma. E le oche, come le lucciole di Pasolini, sono scomparse: non schiamazzano più per avvisarci.
Soffiare sul fuoco del senso di insicurezza e di paura è pericoloso. Alla fine, quelli che plaudono a stivali e tute mimetiche penseranno che sia l’ora di fare da sé, e si sentiranno autorizzati a comprare una pistola e tenerla a portata di mano, per stare più tranquilli. E se ogni faccia sconosciuta è un potenziale nemico, se chi bussa alla mia porta ha l’intenzione di fregarmi, se ognuno che entra nel mio negozio potrebbe rapinarmi, troveranno pane per i loro denti. Aspettiamo che muoia un altro Re Cecconi, per uno scherzo a un amico, per capire in che follia ci stiamo infilando?
I ricchi americani si costruiscono le loro panic room, in cui infilarsi quando la percezione della paura diventa alta: muri spessi, allarmi, viveri di sopravvivenza, telecamere di sorveglianza, luci, armi. Per salvarci, dovremo stare rintanati nelle nostre case. Oppure cacciare via tutti, rendere la città blindata come fosse la nostra casa blindata. Se alimentiamo le nostre paure Roma tutta può diventare una panic city. Ce lo possiamo permettere? Noi ci campiamo con l’essere una città aperta a tutto il mondo.
Chi è ricco e può permetterselo fa del proprio quartiere una zona ad alta sorveglianza, con il suo esercito privato. Che gli altri si scannino lo riguarda poco: quello che teme è che la paura possa lambire il suo giardino ben curato, possa increspare l'acqua della sua piscina. Ma Alberica Filo della Torre, una donna ricca e privilegiata, è morta in modo orribile come Simonetta Cesaroni, una ragazza qualunque che lavorava sodo.

Bande armate bipartisan
I padani leghisti sono quelli che strillano più di tutti per la sicurezza. Ma se i leghisti proprio ci tengono a fare di Bagnolo san Vito e Venegono Inferiore un modello di cittadine in sicurezza assoluta, che se lo facciano. Proveranno poi a spiegarsi da dove arrivano i loro orchi, perché nella tranquilla Cogne Anna Maria Franzoni massacra a zoccolate suo figlio, perché a Novi Ligure Erika e Omar pugnalano così ferocemente il loro stesso sangue, perché a Erba Olindo e Rosa infieriscono a martellate su un bambino, perché nella cascina di un ridente paesino, Leno, Desirée viene attirata, stuprata e uccisa da un branco di ragazzini guidato da un adulto, perché padre e figlio, in un passaggio di sangue, di suolo e di spranga, possano uccidere Abba, che ha rubato le merendine. Tutte le madri del mondo non sono come Anna Maria Franzoni, tutti i vicini di casa del mondo non sono come Olindo e Rosa. E tutti i rumeni del mondo non escono come Mailat dal fondo dell’oscurità per rapinare, violentare e uccidere a una fermata della metro a Roma una donna che torna a casa dal lavoro. Ma i leghisti vogliono cacciare via tutti quelli che non hanno sangue celtico. Bene, ce li prendiamo noi meridionali e immigrati: noi abbiamo bisogno di voglia di fare e di talenti, di competenze e di storie. Che i padani continuino a fare polemica con Federico Barbarossa e Garibaldi, e vadano a farsi fottere. Abbiamo altro cui pensare, problemi «un attimino» più complicati di Chignolo Po e Ponte di Legno. Noi siamo Roma, metropoli del mondo.
Di turismo Roma ci campa, di quello religioso e di quello archeologico, di quello di massa e di quello dei vip, di quelli che comprano solo una mezza acqua minerale e di quelli che prenotano le suite del De Russie o dell’Excelsior. Comunque, tutti acquistano qualcosa: una paccottiglia a Fontana di Trevi o un gioiello da Bulgari. Ci portano soldi freschi, ci danno da lavorare: noi ci sobbarchiamo lo sfinimento del loro peregrinare o della loro cafonaggine, loro si ciucciano il nostro caos e la nostra maleducata indolenza. Lo scambio è equo e solidale. Ma chi è ossessionato dal «decoro» di una città-museo da ripulire delle sue «brutture umane» – barboni, lavavetri, zingari, prostitute – e da far visitare a frotte di turisti disciplinarmente intruppati dietro la loro guida con l’ombrellino, immagina un’altra Roma, una Roma company town del turismo, e intorno questa idea vuole conformare le nostre vite. Il decoro e la pubblica decenza sembrano le uniche politiche capaci di diventare bipartisan. Rutelli ripuliva dai barboni le scalinate delle chiese dove chiedevano l’elemosina, per fare un piacere al papa durante il Giubileo; Veltroni scarrozzava i rom il più lontano possibile dagli occhi e dal cuore. Alemanno misura la lunghezza delle gonne sulla Salaria e l’Olimpica. È la nostra sharia, il peccato diventa reato, facendoci vergognare. Ai bipartisan decorativi interessano solo garbati turisti incolonnati per un rapido sightseeing su un autobus a due piani, e vomitati in un qualche ristorante con cui ci si è messi d’accordo e noi a fare ciao con la manina, educati. Non come i cicloturisti olandesi che si muovono per conto proprio e si fermano dove capita, perché allora «te la vai cercando». Se vengono gli hooligans, per dire, invece li massacriamo subito di botte, come è accaduto all’Olimpico – per sicurezza, per fargli capire come stanno le cose. Loro, i turisti, devono stare con due piedi in una scarpa, noi simpatici e sorridenti, col manganello dietro la schiena.

Siate poveri ma sicuri
La sicurezza è la fiaba che raccontano per farci accontentare, per non farci desiderare, per controllarci. Dovremo essere poveri, i tempi sono questi. Però, saremo sicuri. Siate poveri ma sicuri. È la favola del fascismo, di quando si stava bene quando si stava peggio. Gli orchi però c'erano anche allora. Mussolini imbavagliò i giornali quando a Roma le bambine venivano rapite e stuprate. Poi presero uno che non c'entrava nulla, Girolimoni, ma avere un colpevole fece credere che si potesse stare sicuri. Gli orchi ci sono sempre. Gli orchi non li inventano i giornali ma i giornali – ora che la stampa è «libera e indipendente» – ci sguazzano coi nostri sentimenti e le nostre angosce.
Pensiero religioso e pensiero economico ci vanno a burro e alici con quest'idea della mortificazione e della rinuncia al piacere. Non abbiate troppe ambizioni, non desiderate troppo, non amate troppo, non fatevi troppi amici. D'altronde, ai poveri è destinato il regno dei cieli. L'uomo racconta storie. La crisi economica è una storia. Una narrazione per intimorirci raggruppandoci intorno l'albero degli zoccoli. Attenti all'uomo nero, non andate nel bosco, state alla larga dalla casa di pandizucchero. Ma nelle fiabe gli orchi hanno artigli reali e non sempre c’è il lieto fine. Dentro la crisi si nasconde lo spostamento di ricchezza più gigantesco dal dopoguerra, chi già ha tanto di più avrà, e ognuno rimanga al posto suo. State alla larga dalla casa di pandizucchero.
Le statistiche dicono che i soggetti sociali che maggiormente avvertono la percezione del rischio sono quelli che in generale meno restano vittime: le donne e gli anziani. Perché per proteggersi adottano comportamenti che riducono il rischio: vivono la città solo in certe ore, frequentano solo specifici posti e determinate persone. Fissano la loro vita in consolidate abitudini. In percorsi obbligati. Fuori dalle tracce sicure, ci sono gli orchi. Gli orchi siamo tutti noi.
Qualcuno tiene il conto di quanti maritini e fidanzatini hanno massacrato le loro compagne in questi mesi? L’estraneo ha spesso le chiavi di casa, non viene dal buio, ma dal salotto. Respirando la paura, l’anima si devasta: stiamo avendo paura del diverso per razza e colore, ma i ragazzi gay, le lesbiche o le transessuali aggrediti e sfregiati sono il più delle volte romane e romani. Alla fine, l’altro, l’estraneo, quello che mi disturba diventa l’alieno invasore pure se mangia bucatini all’amatriciana da quando campa. Oramai qualsiasi diversità fa scattare le sirene di massimo allarme.
Una città impaurita è una città infelice. La sicurezza – dicono – è il presupposto della città. Ma una città sicura non vuol dire una città felice – se è una città di merda, rimane una città di merda – e noi vogliamo vivere una città felice. Gli altri sono il presupposto di una città felice. Una città è la vita con gli altri, la vita degli altri. Senza gli altri non c'è città, non c'è felicità. La paura è diventata la forma di socializzazione della nostra solitudine. Timorosa o belluina. Rintanata e muta, o aggregata in ronde e squadre di lame e sangue, e berciante. Questa non è Roma.

La felicità di una repubblica tumultuosa
In un mondo attraversato dalla paura voler essere felici sembra una dichiarazione di follia. Ma il contrario della paura non è il coraggio, è il desiderio. Forse la sicurezza a cui non vogliamo rinunciare è questa qui: le possibilità del mondo. Forse il mondo che immaginiamo privo di paura è un mondo di occasioni. Di innovazioni, di rischi e di conoscenza. Di conflitti. Ho paura se non posso scegliere. Se non posso decidere della vita. Se non posso capire. Conoscere. Spostarmi. Cambiarmi. Incontrare. Amare. Condividere. Divenire. Battermi. Allora ho paura. Ho paura dei miei custodi.
Forse, possiamo ora desiderare una repubblica che non abbia per mito fondativo la paura.
Maneggiare le nostre paure. Contro chi inquina e deturpa i nostri territori, ne fa discarica o li gassifica, ci si è ribellati. Agli studi di fattibilità, ai diagrammi tranquillanti abbiamo sempre opposto l’insicurezza per un futuro «sicuro» troppo lontano dalle nostre vite quotidiane e il timore che finisca per cancellarne i modi e il senso. Abbiamo paura della fine del nostro mondo, che è tutto il mondo che conosciamo bene, dove abbiamo casa. Che è come avere paura della fine del mondo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, la guerra fredda fra blocchi militari e imperiali, quello americano e quello sovietico, minacciava la fine del mondo, lo scontro fra testate nucleari. Oggi sembra tornare l’incubo di quella guerra, ora già eserciti, simmetrici e asimmetrici, si fronteggiano. Non riusciremo a tenerli lontani dalle nostre mura, forse dovremo uscire loro incontro per fermarli di nuovo. Vogliamo batterci tra le nostre mura, per fermarli di nuovo.
Vogliamo andare incontro al cammino dei migranti, ai loro piedi nomadi, che qui cercano riposo e vogliono a tutti i costi la loro città. Hanno già capito la cosa essenziale, lottare con le unghie e con i denti: sono nostri concittadini dovunque essi siano.
Vogliamo andare incontro a chi riveste di sogni qualunque richiesta elementare di diritto, di reddito, di casa, di garanzie e di certezze, a chi crede che il desiderio d’una vita degna e felice possa forzare l’ordine delle cose e del potere.
Il tumulto è il cuore della nostra repubblica: per batterci, dovranno cospargere di sale Roma, dopo averla rasa al suolo. Noi siamo qui, non abbiamo paura.

Scrivete a: repubblicaromana@gmail.com
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