martedì 20 gennaio 2009

Sono loro la crisi


«Siamo in crisi, siamo in recessione». È la cantilena di questi mesi, la musichetta di fondo di ogni questione, di ogni discussione, di ogni ragionamento: non ci sono soldi per gli investimenti, non ci sono soldi per le riparazioni e le manutenzioni, non ci sono soldi per le assunzioni, non ci sono soldi per l’assistenza, non ci sono soldi per rinnovare le convenzioni, non ci sono soldi per la ricerca, non ci sono soldi per gli eventi, non ci sono soldi per le pubblicità e le promozioni. Non ci sono soldi per niente. Siamo col culo per terra, con l’acqua alla gola, con la merda sino al collo. E il peggio deve ancora venire. Le statistiche corroborano la profezia: sembrano le previsioni di un lungo freddo inverno, tutte a segno sotto zero. Non produciamo, non compriamo, non risparmiamo, non cresciamo. Chissà che cosa stiamo facendo intanto.
La crisi ci viene narrata come la «storia» di una finanza di speculatori fuori controllo dal potere delle Banche centrali e dei governi. Invece, non ci sono innocenti: le Banche centrali e i governi sapevano e hanno consentito qualsiasi manovra speculativa, sicuri di contenere quel denaro «di fantasia», e anzi intenti a sfruttarne volume e mobilità senza confini, senza leggi di gravità, per pompare economie e consumi. Per costruire consenso. E, d’altronde, a questo serve il denaro «inventato», a produrre e consumare. A costruire consenso. Una bolla finanziaria è stata fatta lievitare per sostenere il crollo di un’altra. Non ci sono innocenti: il «sogno» di fare denaro standosene in panciolle con in tasca il biglietto vincente della
lotteria aveva catturato facilmente risparmiatori di ogni risma e taglia. Non c’entra niente la non-corrispondenza fra economia «materiale» e «immateriale». È da un bel pezzo che a tot moneta, a tot valore non corrispondono tot merci, all’incirca da quando sono nate le banche e il credito. La folle corsa al nuovo Eldorado si basava su un dato ben materiale: una illimitata possibilità di produrre e consumare del mondo, era questo il «futuro» su cui si rischiava, un futuro senza scarsità. Questa possibilità ha prodotto una non-corrispondenza e un conflitto fra valori – il presente e il futuro, la moneta e il credito, i prezzi e i profitti –, non fra valori e merci. Una confusione della temporalità, fra l’adesso e un domani.
Le merci adesso ci vanno di mezzo. I lavori adesso ci vanno di mezzo. Sono i «danni collaterali». Parlano di una generale «distruzione della ricchezza», ma la nostra capacità di produrre è intatta, la nostra creatività è intatta, la nostra tecnologia è intatta. Venisse anche una apocalisse, non è che il giorno dopo diventeremmo trogloditi, analfabeti, selvaggi, regredendo all’età della pietra: quello che sappiamo fare, la nostra conoscenza, la nostra abilità, i nostri saperi rimangono gli stessi. Quello che si è inceppato, quello che è andato fuori controllo è quello che non funzionava già prima. La capacità di produrre qualsiasi merce a costi bassi è ormai elevata, la possibilità di reperire materie prime a prezzi giusti è ormai estesa, l’opportunità di commerciare e scambiare ovunque è ormai praticabile comunemente. Ma questa ricchezza, questa potenza concreta, reale, materiale è mortificata e deformata. Inceppata, perché costretta al «privato», alla ricchezza per qualcuno anziché per tutti. Per loro, la ricchezza, questa nostra ricchezza, va finalizzata al profitto; per noi, la ricchezza significa liberarci dalla fatica, vivere una vita serena e migliore, dedicarci alla felicità. Solo che il profitto – l’avidità di profitto, non il giusto guadagno – è ormai diventato anacronistico. Esso ha avuto un ruolo nella generale produzione di beni, quando il mondo era segnato e piagato dalla necessità, dal bisogno, dalla scarsità. È stata la molla individuale che ha funzionato di più e meglio d’ogni attrazione collettivistica. Oggi è storicamente illecito, illegittimo, incostituzionale. Oggi la molla all’accaparramento privato, che può darsi solo contro la spinta alla crescita comune, è disgustosa e insopportabile. E come ogni cosa anacronistica, priva di senso comune, perché sussistano ancora il suo dominio e i suoi privilegi già dati, diventa violento. Stupidamente, odiosamente violento.
Niente sarà più come prima, dicono adesso. Ma suona più come una minaccia che come un programma di interventi economici. E d’altronde, quali mai «misure» è possibile adoperare – se non ripescando vecchie formule e esperienze – in un mondo, in un tempo che ha a portata di mano nuove forme e nuove istituzioni del produrre e del vivere supportate da una straordinaria possibilità della scienza e della tecnica che rimettono in discussione i «fondamenti» del nostro esserci? Tutto è vecchio, mostruosamente vecchio, quando occorrerebbero invece coraggio, determinazione, immaginazione.
Un neo-statalismo, nella forma di un keynesismo revisionato o di un protezionismo a passo ridotto o di formule combinate all’interno di alleanze fra Stati, sembra la ricetta più comune. Eppure, non possono esistere «piani» nazionali in grado di superare la crisi, i cui contorni sono per natura sovranazionali. Esiste, però, un plusvalore «politico» della crisi che può essere gestito localmente: un «profitto politico» caduto dal cielo. A questo si aggrappano i governi nazionali e le amministrazioni locali. Per imbonirci e tenerci buoni, agendo sui nostri lati peggiori. Mobilitazione ideologica – richiami a valori e bandiere, a patrie e nazioni, a tradizioni e religioni – e risibili provvedimenti economici andranno di pari passo. La crisi è tutta sulle nostre spalle. Il mondo è tutto sulle nostre spalle.
Bene, azzeriamo tutto allora. Default. Ma ai nastri di partenza di questa nuova corsa non ci stanno solo loro. Ci siamo pure noi. Noi e la nostra ricchezza. Noi e la nostra potenza.

La politica ci salverà?
Quelli che ci hanno mandati a ramengo nella crisi, quelli che dovevano controllare, vigilare, stare attenti, quelli che insomma dovevano fare il loro mestiere – il mestiere per cui li abbiamo votati e delegati, e per cui li paghiamo, cioè: governare – e che se ne sono bellamente strafottuti, per intrallazzo, per ambizione, per totale ignoranza e incompetenza, sono gli stessi che adesso fanno i sapientoni e vogliono salvarci: loro, i politici, gli amministratori, i cortigiani del Palazzo. Qualcosa non torna.
Qualcosa proprio non torna se chi prima ci lascia affondare e dopo ci lancia una ciambella di salvataggio ha la stessa faccia. Qualcosa proprio non torna se tutto ciò che loro hanno messo assieme di provvedimenti sono: fede e speranza. Mentre noi stiamo a capo chino e col cappello in mano e preghiamo e li ringraziamo devoti, timorosi di Dio e intimiditi dall’apocalisse che verrà, loro intanto che fanno?
Nella crisi, loro non sono la soluzione del problema, sono parte del problema. È il loro sistema che va a pezzi, non il nostro. Sono le loro regole che non hanno funzionato, non le nostre. Sono le loro istituzioni che non hanno governato, non le nostre. E adesso vogliono che gli diamo una mano? Anzi, ci chiedono sforzi e sacrifici, solidarietà e rinunce, pazienza e sopportazione, fiducia e serenità. Loro ci chiedono di essere virtuosi. Ci chiedono i nostri soldi – quelli che abbiamo e quelli che ci devono –, tanto, loro pagano tutto coi nostri soldi: siamo il loro bancomat, la loro carta di credito illimitata. E noi dovremmo spendere la nostra ricchezza per loro, dovremmo investire tutto ciò che abbiamo su di loro, dovremmo puntare sulla scommessa che loro rappresentano? Scusate, eh, ma andarsene affanculo, no?
Dice: ma la crisi è globale, sono gli americani, sono i tedeschi, sono i francesi, pure i cinesi so’ – che potevano fare? Ma come, loro ci hanno fatta una testa così con la globalizzazione, e il mercato di qua e il mercato di là, che era un mondo tutto latte e miele, e mo’ vengono a dirci che quello era l’inferno? Oggi dicono il contrario di ieri, ieri dicevano il contrario di oggi, domani chissà che diranno, quello che importa è che loro restino lì dove sono a dirci sempre qual è la cosa giusta. Scusate, eh, ma un po’ di pudore, niente? Tutto quello che propongono è un revival di autarchia – «consumate italiano» – e una nuova austerity, tutto quello che loro sanno dire adesso è che gl’Americani so’ troppo forti, yogurt, marmelata, però, forse è meglio che se magnamo du’ maccaroni? Ma davvero credono che siamo tanto fessi da berci qualsiasi frottola ci raccontino?
Si è aperta una transizione al futuro, dentro il tramonto di questo tempo. Una transizione che non sarà indolore e vedrà conflitti e tumulti. In ogni luogo, in ogni territorio, in ogni città. Qui. In questa città. Governare questo tempo non è pane per i loro denti.

Che se ne vadano via
Noi siamo la ricchezza di questa città. Roma è ricca della nostra ricchezza, del nostro talento, della nostra creatività, della nostra capacità di inventare e produrre, dei nostri desideri, delle nostre curiosità, della nostra speciale qualità di costruire relazioni, della nostra voglia di vivere meglio, della nostra ricerca di felicità. Ciascuno a modo suo e per quel che può e sa fare. Questo luogo ci appartiene, questa città ci appartiene. Questa città è la nostra città. Ci lavoriamo da tempo, investendoci i nostri saperi e i nostri mestieri, nel pubblico e nel privato. Questa città ha smesso d’essere provinciale e succube d’Oltretevere con la fine del lungo potere democristiano, con la grande ondata di chi aveva vissuto le trasformazioni e le speranze dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta e progressivamente entrava nelle professioni, nei mestieri, nel commercio, negli impieghi, portando culture e innovazioni, lingue e circolazione di idee, sguardi e visioni, portando una enorme capacità di cooperazione e relazione sociali, facendo tanto col poco, valorizzando la «fortuna» di trovarsi dove c’è il più grande patrimonio dell’umanità, valorizzando quella straordinaria risorsa collettiva che è Roma. Inventandone «forme d’uso» che ne riscoprissero la storia – il senso e la bellezza dei suoi spazi – ma fossero pure quotidiane, «facili», quasi sovrappensiero. Tutti quelli che si sono succeduti al governo di Roma non hanno fatto altro che mettere a profitto questa capacità, appropriarsene. Come oggi si appropriano del lavoro di quei produttori di immaginario e di cultura che in questi anni sono nati e cresciuti a Roma – di certo non grazie all’auditorium e alla festa del cinema di Veltroni e Bettini, ereditati e corretti da Alemanno e Croppi – e che fa cinema, video, teatro, musica, pubblicità, libri, produce cose per un buon vivere.
È tempo di dichiarare la nostra indipendenza. È tempo di governarci da soli: qualsiasi badante sarà più capace e avrà più cura nel governare, nell’amministrare, di loro.
Sono loro la crisi, è il loro sistema la crisi della nostra ricchezza. Sono loro il «male assoluto»: il loro sistema fiscale, il loro sistema creditizio, il loro sistema legislativo, il loro sistema distributivo. Sono un freno alla nostra capacità di produrre, alla nostra possibilità di creare, inventare. Davvero, non ne possiamo più: amministrano i nostri soldi e ce li lesinano e li sperperano, gli abbiamo affidato i nostri beni – la nostra storia, la nostra memoria, le nostre bellezze, la nostra cultura, i nostri immobili – e se li accaparrano, li trascurano o ne fanno scempio, non sanno provvedere ai bisogni minimi quotidiani della città come alle situazioni eccezionali d’emergenza. Loro, i politici, coi preti, i banchieri e gli immobiliaristi.
Questa città va diventando un luogo qualunque, una città-cartolina, una città-presepe, una città-depliant. Una città mediocre. Un luogo indistinto, una metropoli che somiglia a tutte le altre, che si consuma come tutte le altre, dove non c’è relazione alcuna fra la storia e l’adesso, fra ciò che siamo stati e ciò che siamo. È svuotata di se stessa, è la copia di se stessa, qualcosa che può star bene a Las Vegas o Disneyland. Un luogo sciatto e blindato nello stesso tempo, sciatto per noi e blindato per loro.
Dentro la loro crisi, per noi si prospettano ulteriore precarietà dei lavori, compressione dei salari, assenza di tutele e garanzie sociali; per loro, varrebbe il tassativo ordine di «non disturbare il manovratore». La loro formula di uscita dalla crisi, di ricostruzione della legge del profitto ha un solo ingrediente: ridurre il lavoro a forme di servitù.
Ecco, onorevoli politici e amministratori dei nostri stivali, vi diamo questa notizia: siete arrivati al capolinea, è tempo di scendere. Non sapete fare il vostro mestiere, e il vostro mestiere siamo stati noi. La città sovrana vi revoca il mandato, noi vi licenziamo.
Voi politici siete inquilini morosi, siete abusivi. State occupando abusivamente il nostro centro, casa nostra, i nostri «palazzi». Se i vigili urbani di questa città fossero meno impegnati a rompere i coglioni agli ambulanti e ai rom o a prendere bustarelle e a darsi malati, e lavorassero un po’, dovrebbero venire lì a Montecitorio, a Palazzo Chigi, al Campidoglio, sulla Colombo, a sfrattarvi, a mettere i sigilli con l’ufficiale giudiziario dovrebbero.
Voi politici avete fatto del centro di Roma un luogo vostro, deturpandolo, facendo pagare a noi il doppio peso doppiamente odioso del potere nazionale e del potere locale. Vi siete proprio allargati, con i vostri uffici, le vostre segreterie, le vostre biblioteche, le vostre scorte, le vostre foresterie e le vostre garçonnieres. Scorrazzate per la città con le vostre auto blu. È tempo che vi leviate di torno, che ci restituiate i nostri spazi. Saremo generosi: andatevene via, oltre il raccordo anulare, andatevene in un Cpt, un Centro di politici temporaneo tutto per voi. Potrete giocare a Destra, Centro e Sinistra quanto vi pare, a noi ci ha già stufato da un pezzo. Almeno non state tra i piedi, non date troppo fastidio e già è una cosa.

Io sono mia
È tempo di dichiarare la nostra indipendenza. Se c’è davvero una cosa che questa crisi mostra con ogni evidenza è che interventi economici «impensabili» – il denaro a costo zero, le ore di lavoro decurtate della metà a uguale salario – sono già possibili da tempo. Se c’è davvero una cosa che questa crisi mostra con ogni evidenza è che viviamo al di sotto delle nostre possibilità, e non al di sopra come vorrebbero convincerci – «Si è scialacquato troppo», dicono – per continuare a mortificarci. Riformisti e conservatori parlano con la stessa voce fessa. Tutt’al contrario, noi vogliamo tanto e di tutto. Vogliamo inventare, produrre, scambiare e consumare. Vogliamo desiderare. Quelli che sono privilegi di pochi – una vita confortevole e sicura, ricca di piaceri e bellezze – potrebbero essere occasioni di ciascuno. Le possibilità materiali ci sono ormai tutte, di soddisfare ogni necessità. Invece, siamo in una società economicamente depressa che non ce la fa a risollevarsi a forza di gag e spiritosaggini.
Ma viviamo al di sotto delle nostre libertà. Il tempo della illimitata produzione di massa è finito, il tempo della illimitata disponibilità al consumo è finito. Era il tempo dei mezzi e delle macchine, e della fatica dell’uomo. È finito pure il tempo della illimitata propensione alla delega politica. Era il tempo dei totalitarismi e della democrazia. È il tramonto d’una civiltà, non solo d’un sistema, una civiltà che ha fatto del lavoro e della produzione la sua potenza e la sua egemonia, e che su lavoro e produzione ha ormai perso il primato. Succede nella Storia. Si va avanti. Eppure, è nella politica la nostra grande storia e tradizione, nell’invenzione della politica, dei diritti, delle libertà. Nell’invenzione della rivoluzione politica. È questo che la nostra storia ha dato al mondo. È questo che possiamo ancora dare al mondo. È la nostra vera «eccellenza». La nostra politica.
La rivoluzione che verrà sarà giovane e repubblicana. La repubblica che verrà, sarà autonoma, libera e indipendente. Sarà romana. Vivrà della capacità di decisione e di espressione di ciascuno. La democrazia rappresentativa, che pure ha avuto una funzione e un’importanza straordinarie, è ormai un involucro vuoto. Poggiava su una relazione fra lavoro e cittadinanza che non si dà più nelle forme del Novecento. Non si può ripristinare o rifondare, lo sa bene la Reazione: le derive populiste, le piccole patrie irrompono e governano in Europa. Colmano quel vuoto in modo orribile, portano le lancette della storia all’indietro. Possono pure vincere brevemente, ma non reggeranno.
Noi, quel vuoto vogliamo colmarlo di nuove virtù repubblicane, di nuove compassioni, di nuove libertà, di nuove felicità, di nuove istituzioni.
Vogliamo rendere a Roma l’onore della sua storia, della sua storia politica, della sua sovranità. Perché sia modo di una nuova cittadinanza nel mondo.

Scrivete a: repubblicaromana@gmail.com
Scarica qui il pdf

Nessun commento:

Posta un commento