giovedì 20 gennaio 2011

Che c'hai un sercio?


Erano scomparse da anni, le cicogne. Avevano cancellato l’Italia dalle loro rotte. Già sfiancate dal lungo viaggio, si spingevano ancora avanti, a nidificare altrove. Se l’erano detto l’una all’altra: questo non è un paese di buona accoglienza, i pensieri ringhiano e i cuori dormono e gli occhi sono incurvati verso il basso. E ci vogliono cuori allegri e sguardi verso il cielo per salutare come si deve l’arrivo delle cicogne, la novella di una nascitaErano scomparse da anni, le cicogne. Avevano cancellato l’Italia dalle loro rotte. Già sfiancate dal lungo viaggio, si spingevano ancora avanti, a nidificare altrove. Se l’erano detto l’una all’altra: questo non è un paese di buona accoglienza, i pensieri ringhiano e i cuori dormono e gli occhi sono incurvati verso il basso. E ci vogliono cuori allegri e sguardi verso il cielo per salutare come si deve l’arrivo delle cicogne, la novella di una nascita.
Poi, sui tetti e sui comignoli, sulle gru, sulle ciminiere e sui monumenti, sui luoghi alti delle città, sono apparse nitide figurine con nuovi piumaggi stracolorati e con le loro tende, nidi di fortuna a tagliare il vento gelido.
Chi ha alzato gli occhi in alto, si è indicato l’uno all’altro quegli strani uccelli che si mescolavano ai santi e agli angeli di marmo che costellano i tetti d’Italia e la sua linea del cielo, e la loro annunciazione: la città è nostra. Da sempre e di nuovo. Un miracolo. Come altro si potrebbe chiamarlo?
Ci sono momenti in cui le città per scoprire se stesse scavano nelle proprie viscere, togliendosi pelle dopo pelle, venendo su dal basso, per capirsi e interrogarsi, per cercare una propria anima. E ci sono momenti in cui gli spiriti della città vengono dal cielo o dai tetti. Appendono in alto le proprie radici. Nei luoghi delle favole e della poesia.
E ci vogliono cuore allegro e testa alta per salutare come si deve il ritorno dei movimenti, dai luoghi delle favole e della poesia.
Così, con rito e gesto antichi, si sono preparati i falò e accesi i fuochi della festa, per dare l’addio agli anni vecchi e salutare quello nuovo. Dentro i fuochi si sono gettate le cose rotte e sbreccate, quelle che non servono più, che non dovrebbero servire mai: i furgoni blindati dei militari, le vetrine preziose e indorate, i pensieri dei malvagi, le proprie paure.
Tutta la piazza si è incendiata in tumulto, in strade di fuoco. Il tumulto ha strappato con le unghie le pietre da terra, passandole di mano in mano, tirandole contro i palazzi dove il Potere è asserragliato, stupido e insolente, vecchio e sbreccato. Chi si sa senza peccato ha scagliato la prima pietra. La piazza si sa innocente. Immacolata. Senza colpe. Che c’hai un sercio?
Dicembre è stato il tempo dei sassi, il tempo della piazza e dei tetti, dei vicoli e delle tangenziali. E delle cicogne, e delle favole e della poesia. È stato il mese delle città. Delle città d’Europa. Di Roma. I profili delle città sono cambiati: fra i tetti e le piazze, fra i monumenti e le gru, fra i santi e gli angeli ci sono ora i movimenti. E dove crescono i gelsomini scaldati dal vento del deserto, a gennaio, altre rivolte sono scoppiate, a Tunisi, Algeri. Dove non è mai riuscita l’Europa a piantare la sua civiltà, le pietre lanciate dai giovani si accumulano costruendo ponti. As-tu une pierre?
Questa è la buona novella: le città sono nostre. Non c’è città senza di noi. Roma è nostra. Ogni tanto, scuotendosi, fa bene al cuore ricordarlo a tutti. Anche a se stessi.

Il tumulto del 14 dicembre
Il tumulto del 14 dicembre è un figlio di nessuno e di diecimila, un bastardo senza nome e senza patria. Un milite ignoto. Mille padri e mille madri possono farsi avanti, per rivendicarne paternità e gestazione, spiegarci la filiera della sua tracciabilità come fosse una mozzarella dop, ma la semplice verità è che era inaspettato e inatteso. Nessun profeta e nessun predicatore, nessun battista e nessun astrologo ne avevano annunciato l’arrivo né avevano preparato i nostri pensieri e le nostre mani. Ora si possono compulsare antichi libri e arcaiche predizioni, si possono esprimere dotte citazioni e sagge previsioni, valutare traiettorie e fare calcoli su calendari magici, ma sarebbe solo il modo per chiudere i nostri cuori al suo messaggio, i nostri occhi al suo miracolo. Il tumulto del 14 dicembre è venuto tra noi a parlare dell’antico amore per la libertà. E i miracoli non accadono tutti i giorni e non si ripetono mai uguali. Sono irripetibili. A volerli riprodurre, diventerebbero esibizioni di cattivo gusto, simulazioni in maschera, fenomeni da baraccone. I giorni dell’ira non arrivano tutti i mesi, tutti gli anni. Dopo l’ira, ci sono i giorni del giudizio. Dopo la furia dell’innocenza, non c’è la ferocia, ma la tenacia. Ma tutti i giorni non possono essere vissuti come se non siano mai accaduti i miracoli. Dobbiamo conservare la meraviglia e lo stupore della giornata del 14 dicembre, perché è tutta lì la potenza duratura dell’evento, nella meraviglia e nello stupore. Non sappiamo dire se un altro mondo è possibile, ma possiamo dire che la rivolta è possibile. Possiamo testimoniarlo senza timore di spergiuro. E possiamo e dobbiamo continuare a raccontarlo, che, sì, le acque si sono aperte, che, sì, il deserto è stato attraversato. Ora, tutto questo è alle nostre spalle, siamo in una nuova terra. La sorpresa è stata generale, comune. E cos’altro è il comune se non ciò che è sorprendente e inimmaginabile per tutti, se non ciò che va oltre ogni nostra singola attività, idea, ambizione, ogni nostro individuale potere? Se non ciò che è indicibile prima, e può essere solo raccontato dopo? Adesso possiamo confidare. Se in fondo al nostro cuore teniamo viva la scintilla, se le nostre intelligenze rimangono aperte. Se non siamo più gli stessi di prima. Se non facciamo finta che sia mai accaduto.
Ogni tumulto sembra essere già accaduto in un tempo precedente. Ogni rivolta sembra essere la stessa di quell’altra. E ogni gesto individuale di ribellione rimanda a qualcosa di profondamente umano o più antico dell’uomo. Ma tutto questo non ci direbbe nulla della nostra vivida esperienza, se non che essa è sacra e storica nello stesso tempo. Ma sapersi sacri e storici non protegge nel mondo. Semmai, ti espone a una maggiore violenza. Ogni rivolta fonda in sé e comincia da sé la propria storia. Non c’è Sessantotto, non c’è Maggio, non c’è Settantasette, non c’è Pantera, non c’è Genova 2001, non c’è jacquerie o Comune o Spartakusbund, non c’è insurrezione che tenga. E anche: c’è tutto questo e tanto altro ancora. Il tumulto è un punto di partenza, non di arrivo. Non è un intermezzo musicale o uno spot pubblicitario. È un nuovo cominciamento, per un nuovo movimento. Se ci spogliamo di pregiudizi e timori sapremo accogliere e diffondere il messaggio di libertà. Quello che va capito, insieme, è di quale storia e di quale sacralità stiamo parlando. Per noi, il tumulto è il fondamento sacro e storico della città, è la costituzione sacra e storica della città.

La democrazia dispotica
Le democrazie liberali vanno implodendo. Sinora, per quanto imperfetta, si era sempre dimostrata l'opzione vincente di rappresentanza popolare e di governo, assicurando meccanismi per la mobilità sociale, per la partecipazione alla ricchezza prodotta, per l’accumulazione e la trasmissione di benefici tra generazioni. Hanno retto a sussulti e convulsioni pagando il prezzo di scandali e corruzioni, di dossier oscuri e lunghi complotti, ma nessuna alternativa è mai stata altrettanto utile e praticabile. La crescita illimitata, con alcune periodiche crisi riassorbite attraverso politiche assistenziali, occupazionali o monetariste, sembrava la traiettoria infinita a cui appendere desideri e aspettative, bisogni e consumi di massa e individuali senza limiti. Se uno stop si imponeva momentaneamente, la ripartenza, la recovery, il go colmavano rapidamente ogni limite precedente. Alla macroeconomia faceva riscontro un percorso individuale o di nucleo familiare in accumulazione e crescita. Ai privilegi concessi ai pochi, si accompagnavano le possibilità offerte ai molti. Le diseguaglianze mostravano estremi distanti ma commensurabili. Ed è meglio vivere fra diseguaglianze in cui ci siano delle ricchezze, piuttosto che in un’uguaglianza in cui ci sia solo miseria collettiva. Anche a chi restava fuori, ai margini, era garantita comunque un’opportunità di inclusione e un pasto gratis. I conflitti fra le rappresentanze sociali ruotavano intorno la distribuzione della ricchezza e la tassazione delle rendite, perché ci fosse più equità, ci fossero più servizi, ci fosse più cosa pubblica, più occasioni per più differenze e diritti. Ma che una ricchezza maggiore venisse prodotta domani, che il raccolto dell’anno successivo sarebbe stato migliore di questo era il presupposto condiviso di ogni indebitamento individuale e collettivo, di ogni patto creditizio sul futuro: si sarebbe in qualche modo e in ogni caso fatto fronte a ogni esposizione debitoria, a ogni cambiale, a ogni mutuo, a ogni pagherò. E il credito veniva erogato o “stampato” con lo stesso convincimento, che il patto sarebbe stato onorato. Fra democrazia liberale, investimenti di capitale, produzione industriale, crescita del mercato e dei consumi, accantonamento di risparmio, il circolo virtuoso tirava senza sosta come su una scocca continua incastrando i suoi ingranaggi.
Questo mondo appartiene ormai a un’altra epoca, è ormai morto. La relazione virtuosa fra crescita e democrazia liberale – paradigma del moderno – si è inceppata da tempo dentro un sistema di crisi. La devastazione sul tessuto sociale, sui nuclei familiari, sulle psicologie dei singoli individui è terrificante. Tutte le categorie mentali, le frasi colloquiali, il sentire comune che costituivano il linguaggio del mondo quotidiano di prima sono inutilizzabili, a volte persino inconcepibili se non come reliquia del passato, come storia. I linguaggi specialistici, tecnici, che definivano le nostre identità pubbliche e private – il lavoro, la politica, i ruoli familiari e sociali, lo status delle professioni – ci parlano ormai da lontano, un teatro delle ombre. Non carpiscono più le nostre identità mobili, precarie. E, privi di una grammatica comune, si imbarbariscono, in una guerra civile dei linguaggi. Senza le cose rappresentate dalle parole, la relazione pragmatica quanto ideale fra generazioni ha interrotto il suo flusso di comunicazione, la sopravvivenza di ciascuna non potendo essere che a scapito dell’altra, divenendo egoista e ostile. La classe di mezzo, che si è dilatata oltremodo tra due estremi ora sempre più distanti e incommensurabili, vive perennemente sotto lo stress di una perdita dell’equilibrio, di una caduta sempre in agguato, di un superamento della soglia del precipizio, senza più possibilità di ricominciare, di recuperare ma con l’orribile prospettiva di rimanere all’inferno. La mobilità è solo verso il basso, verso gli svantaggiati, e non più verso l’alto, i privilegiati. Per la promessa di essere più ricco domani ti dicono che devi essere più povero oggi. Ma così si è ogni giorno più poveri e ogni giorno meno ricchi, ricchi della ricchezza collettiva che produciamo. Perché la promessa cela colpevolmente il paradosso: che non siamo mai stati così immensamente ricchi quanto allo stesso tempo, per l’inattingibilità collettiva della ricchezza, mai così immensamente poveri. In luogo di una vita facile, possibile per il sapere generale che è cresciuto geometricamente, ci dibattiamo in una vita agra, impossibile.
Il capitalismo non è morto, e forse non è neppure un animale morente. Ma le luci della festa si vanno spegnendo a una a una e rimane solo malinconia. Gli spiriti animali sono intristiti. Amministrano le rendite accumulate e mostrano i denti, feroci. Dalla crisi economica non si è usciti in alcun modo, perché essa è lo scenario dentro il quale si stanno modificando i rapporti di forza tra imperi declinanti e emergenti, tra possesso di materie prime e apparati produttivi, nuove alleanze, nuove religioni, nuove geopolitiche. Per uscirne, bisognerà risistemare il mondo. E non si fa in un giorno e non si fa pacificamente. Finito il tempo dell’affluenza, in cui si può condiscendere e mediare, e giunto il tempo del declino si tratta di tenere stretti i fondamentali. La rappresentanza democratica parlamentare ha progressivamente perso il suo ruolo e il suo compito di confliggere e mediare su istanze sociali, che non possono avere alcun riscontro economico e finanziario, anche su singole issues. Il suo fantasma continua a aleggiare tra noi, che lo interroghiamo convinti e lo disconosciamo altrettanto convinti, confusi dalla sua presenza che a volte ci sembra reale, ma di cui più spesso proviamo l’inconsistenza. Il potere legislativo, anima progressiva della democrazia liberale, si è incrinato a tutto vantaggio del potere esecutivo. Il dispotismo democratico non è un’anomalia e un’eccezione, ma un adattamento strutturale delle democrazie liberali. Per governare, per tenere i fondamentali, esso chiede ancora più potere.

La saggezza grida nelle strade e nessuno l’ascolta
La politica parlamentare è diventata unipolare. Si muove solo per linee interne al regime, ne accetta il fondamento di sovranità, l’occidente minacciato e accerchiato, e il presupposto di legittimità, la crisi. La capacità di rappresentare scenari, immaginare visioni, tracciare orizzonti è completamente scemata. Prevalgono interessi di parte, egoismi di lobbies, rendite di territorio. Forse la storia non è finita nell’89, ma la politica sembra essersi spenta. Se c’è un luogo dove il no future è legge, questo è il parlamento, dove lo scambio a breve regna sovrano. Le democrazie sembrano deboli e incerte, incapaci di decidere sul futuro, incartate fra veti e sondaggi. Hanno il moto tardo. La democrazia parlamentare non è morta e forse non è neppure un animale morente, ma il suo male oscuro somiglia a una lunga agonia. Il potere politico e economico invece ha fretta e sta così già provando a risolvere a suo vantaggio la crisi della democrazia rappresentativa. La lunga marcia attraverso le istituzioni, da parola di movimento è diventata prassi di potere. Le ha attraversate tutte, tagliandosi i ponti alle spalle, trovandosene fuori. Si è appartato, opacizzato oltremodo, è diventato extraparlamentare e anticostituzionale. Fonda la sua autorità e costruisce il suo consenso su ciò che è fuori dal presente, lontano dal moderno, su ciò che è sempre stato: l’esercizio del potere, la religione, il denaro, la forza. Getta all’aria i tavoli. Fuori dalla costituzione e dalla norma ha accumulato un potere di violenza e di consenso che non trova regola, è insofferente e illegale rispetto alla lettera. Il bisogno del potere economico e politico di devastazione sul senso comune e sulla norma pubblica è impellente, è urgente. È eversivo. Sinora è andato avanti a strappi, a eccezioni e emergenze. Governava così. Ora ha bisogno di stabilità. Per questo il conflitto si è fatto ideologico. Il potere, come ultima risorsa, getta la soglia dell’ideologia tra i piedi dei conflitti, e si fa ideologia. L’occidente si è fatto ideologismo, altri turchi stanno di nuovo alle porte di Vienna, la crisi è il suo vessillo: In hoc signo vinces.
Ma difendere la norma e la regola costituzionale non ci esime e non ci salva dall’obbedienza al regime dispotico. La fondatezza della legge non ha più riscontro nel senso comune, che si è disperso in mille rivoli e frammentato in mille interpretazioni. E senza sentire comune condiviso non esiste giustizia, rimane solo l’apparato che lo esercita, un management che amministra in nome di altri, attento ai propri interessi di casta, rendendosi odioso una volta agli uni, una volta agli altri. Aleatorio e icastico. L’indignazione per la trasgressione della norma, per la privatizzazione della legge comune, non può arenarsi nella richiesta ai sacerdoti delle regole perché si ergano a difensori dei riti. Lo spirito della regola è conservatore nella lettera e mediatore nell’interpretazione, non si erge certo a innovazione. La potenza costituzionale del tumulto non può costringersi a essere letto secondo le norme vigenti. Non vi ha alcun riscontro.

Ricominciare la democrazia
Collasso dei valori di riferimento di un precedente sentire comune, afasia di una nuova narrazione potente a motivare l’agire umano, faziosità degli interessi incapaci di trasformarsi in un «bene comune», necessità di un pensiero politico in grado di cogliere l’eccezionalità. E allora fuori da tutto ciò. Fuori dalla democrazia liberale, dal regime dispotico parlamentare esiste tutta un’altra politica. Per linee esterne. Ricominciare la democrazia è possibile solo fuori dai poteri costituiti, fondandosi sulla potenza costituzionale del tumulto. Il tumulto non ha alcuna obbligazione politica di mediazione e di rappresentanza. Il tumulto è costituzionale, rivendica l’origine e il fondamento della volontà sociale, della sovranità comune. Nel tumulto sta l’ordine di ogni futura costituzione e rappresentanza, stanno la norma e la legge, un nuovo spirito pubblico, il sentimento d’obbligazione alle città, ai territori. È la città – le sue piazze, le sue strade, i suoi tetti, i suoi monumenti, i suoi movimenti – l’unico luogo comune. L’unico linguaggio comune con cui riconoscerci e capirci. La ragione della città è il luogo di resistenza alla forza distruttiva del potere costituito. La sua forma sociale, radicata nella storia e nella natura del territorio, è l’occasione per scoprire nuove identità. In un mondo in rapida mobilità la città non rappresenta più la stanzialità di sangue e residenza ma il soggetto della produzione di ricchezza, della produzione di senso, delle relazioni sociali: la possibilità di costituire nuove soggettività. Lontane dalla statualità come dalle nazioni, dalle etnie.
Il tumulto non minaccia, esorta. I margini di riformabilità delle decisioni del potere dispotico stanno forse nei dettagli, a volte neppure in quelli – non c’è partecipazione che tenga – ma i margini di erosione della democrazia stanno tutti nei dettagli. Su questi si costruisce opposizione, lotta, resistenza: il programma è tutto lì, è il potere dispotico a dettare l’agenda. È su questi che il nuovo spirito comune genera proposte, idee, alternative. Solidarietà e rete. Scadenze e progetti. Ma non c’è un punto extraterritoriale di aggregazione e imputazione delle istanze: ogni movimento rimane padrone del proprio territorio. Ogni processo di nuova rappresentanza deve prima misurarsi col percorso di nuova costituzione, a cui partecipano diversi e differenti soggetti sociali, politici, economici. La moltitudine del tumulto nei giorni qualunque produce, scambia, abita, risparmia in modi diversi, desidera e sogna in maniere differenti. E la territorialità, la città, diventa il luogo proprio dove la potenza costituzionale si configura di volta in volta in autorevolezza e sovranità. Non c’è una società civile su cui poggiare la democrazia. È il tumulto che pone la società civile. E non c’è un percorso lineare di accumulazione della forza verso una spallata. Come e cosa accadrà, chi può dirlo? La «repubblica» è un processo, non un’istituzione o una forma di governo.

La Repubblica ci aspetta.
Accorrete! Accorrete!

Scrivete a: repubblicaromana@gmail.com


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